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“It”, A. Muschietti (U.S.A., 2017)

Stephen King lo conoscono tutti come il “Re del brivido”. Data la quantita’ di libri che vende c’e’ una discreta fetta di popolazione mondiale che ha letto almeno uno dei suoi libri, e una discreta fetta di popolazione mondiale che, fatta l’equazione

“re del brivido+tanti libri venduti=robaccia da decerebrati”

non s’e’ mai accostata ne’ mai si accostera’ a un libro di Stephen King. E’ un peccato, per questa fetta di popolazione, ma me ne faccio una ragione.

A me piace leggere King perche’ scrive benissimo. I suoi romanzi si leggono con piacere  per come sono scritti, per come quasi sempre le trame sono tutte cosi’ connesse che arrivi in fondo e non pensi che quella storia potesse avere un’altra fine. Se per caso avete mai avuto per le mani una versione in lingua originale vi sarete accorti di quanto questa cosa funzioni, e tanto di cappello ai traduttori italiani che riescono a mantenere il livello anche nelle trasposizioni nella nostra lingua.

It e’ uno dei romanzi piu’ conosciuti di King, ed uno dei piu’ belli per parecchi motivi. Uno di questi motivi (il come la storia e’ narrata, con continue alternanze di flashback e flashforward tra il 1957 e il 1984 a scandire i vari capitoli e a legare il tutto in modo magistrale) viene meno nella trasposizione cinematografica attualmente nelle sale. Questo e’ un problema per chi ha letto il libro, ma e’ uno dei problemi di questa pellicola strutturata esattamente come mille altre di questi tempi: un prodotto seriale che sfrutta un titolo famoso per fare incassi. Mandando in culo la storia, la logica, il pathos, l’introspezione dei vari personaggi, la spiegazione del perche’ certe cose succedono.

it-teaser-poster

Il film si riduce al clown Pennywise (fatto benissimo, per la verita’, ma grazie al cazzo…) e ai palloncini, che seppure demode’ sono pur sempre un ottimo strumento di marketing. Ma allo stesso tempo definiscono il target vero di questa operazione economica: i teenager dei nostri tempi, sempre meno avvezzi a leggere libri, e sempre piu’ consumatori di serie televisive che vanno riproducendo di annata in annata sempre gli stessi identici stilemi. Facili da seguire, senza bisogno di accendere il cervello.

L’assenza del pendolare di capitolo in capitolo avanti e indietro nel tempo e’ ovviamente funzionale al capitolo 2, che ci sara’ prima o poi non perche’ lo vuole la storia, ma perche’ i botteghini hanno macinato biglietti su biglietti grazie al tam tam mediatico che ha preceduto l’uscita del film. E’ funzionale anche alla riduzione del budget (non devi avere due cast in parallelo, distanziati da 27 anni di eta’, quindi nemmeno ti poni il problema di fare il casting “a coppie”: Ben quattordicenne e Ben quarantenne, e cosi’ Beverly, e Mike, e gli altri), e forse (magari, ma non ci spero: e’ troppo lungo per i canoni dei best seller odierni. Con un It ci vengono sei FabioVolo, per dire) anche alla vendita del libro.

Lo spostamento temporale della storia dal 1957 alla fine degli anni ’80 e’ pure funzionale al target dei bimbimink teenager, che a malapena sanno che c’e’ stato qualcosa prima del 2000, figurarsi se potevano apprezzare un tuffo nel passato di tale portata. Il capitolo 2 sara’ ambientato ai nostri giorni, e cosi’ anche i rimandi musicali (di cui King e’ maestro nei libri) saranno adeguati ad un pubblico venuto su ad X-Factor e ad Amici.

Da It fu tirata fuori una miniserie tv, decenni fa. E’ una produzione a basso costo se la si paragona a quel che lo stars system tira fuori in un mese oggi, ma almeno manteneva la struttura splendida e lineare (si: lineare. Pare strano dirlo d’un libro che salta avanti e indietro ma e’ cosi’) del romanzo.

Il film di adesso tradisce tutto del capolavoro di King, non fa capire allo spettatore ignaro della storia perche’ succedono certe cose, e colpisce forse solo per l’ambientazione e la fotografia. Il resto fa veramente schifo.

Due di incoraggiamento (a lasciare stare certe sceneggiature), come i film fatti sino ad oggi dal carneade muschiato Muschietti, onesto manovale della macchina da presa e niente piu’.

Barney

“22/11/’63”, S. King, Sperling & Kupfler (2011)

Se aveste la possibilita’ di tornare indietro nel tempo, che fareste? Riuscireste a vivere cinque anni nel passato, in attesa dell’evento che sapete accadra’ e che volete assolutamente cambiare? E riuscireste a sconfiggere la resistenza del passato che non vuole essere cambiato?

2_Stephen-King_22.11.63_copertinaLa storia che King narra con la consueta classe in “22/11/’63” e’ quella di Jake Epping, tranquillo professore di letteratura in un liceo del Maine, che viene convinto dal suo amico Al a farsi trasportare nel 1958 attraverso una specie di varco temporale, e li’ vivere sino al 1963 con l’unico scopo di impedire che Lee Harvey Oswald uccida JFK a Dallas. La certezza di poter ritornare attraverso il varco al presente -in cui invariabilmente passano solo due minuti a prescindere dalla durata della permanenza nel passato-, e la possibilita’ di cancellare quel che e’ stato fatto semplicemente ri-varcando la soglia del tempo spingono Jake (che diventera’ George nel ’58) a imbarcarsi in una impresa che modifichera’ in maniera profonda la storia americana.

Il libro racconta di occasioni perdute, di conseguenze a valanga che trasformano piccoli fatti in cataclismi immani (secondo la teoria per la quale un battito d’ali di una farfalla in Cina provoca un terremoto in Peru’ anni dopo), di rapporti umani, di incertezze sul da farsi…

E’ fantascienza distopica con parecchi richiami ad It, altro libro di King, e mai inutili descrizioni degli USA degli anni ’60.

Una gran bella lettura, con un gran bel finale. Libro tra l’altro tradotto molto bene da Wu Ming 1

Barney

“Buick 8”, Stephen King, Sperling & Kupfer (2003)

From a Buick 8” (in italiano semplicemente “Buick 8“) e’ un romanzo di King del 2002.

Buick8coverParla di un’auto non certo normale, un po’ come la piu’ famosa -e forse piu’ inquietante…- Christine.

La storia e’ scritta nel peculiare modo kinghiano di raccontare le cose: si parte dal presente e si procede a suon di flashback che vengono in questo caso inseriti come racconti “in linea” rispetto allo svolgersi degli eventi (che per buona parte del libro sono rappresentati da una lunga chiacchierata tra varie persone). I flashback sono in pratica un continuo “infodump” che pero’ e’ funzionale al dipanarsi del racconto, che illustra al giovane Ned Wilcox il motivo per cui nel capannone B del posto di polizia di uno sperduto paesino della Pennsylvania e’ rinchiusa da decenni una Buick Roadmaster nera.  Come questa qua sotto:

buick2Ned Wilcox e’ il diciottenne figlio dell’agente Curtis Wilcox, morto qualche anno prima per colpa di un ubriaco che l’ha inchiodato ad un camion in una stanca serata di normale pattuglia.

E come il padre, appena scopre l’auto ne subisce il fascino magnetico, l’attrazione anche fisica verso una cosa di cui scopriremo ben presto le peculiarieta’ e la pericolosita’.

E’ interessante leggere la postfazione di King, dove l’autore racconta la genesi dell’idea. La scena iniziale, in cui la macchina fa la sua comparsa sulla scena contestualmente alla scomparsa del suo misteriosissimo pilota, e’ stata suggerita a King da un episodio che gli e’ capitato, mi pare proprio in Pennsylvania. La morte di Curt Wilcox per investimento ha un inquietante parallelo con il pauroso incidente di cui resto’ vittima Stephen King stesso pochi mesi dopo avere iniziato la scrittura di “Buick 8”.

I due temi fondamentali del romanzo sono l’inevitabilita’ di certi avvenimenti e la sostanziale inutilita’ di cercare di capire il perche’ sono accaduti.

Molti ritengono “Buick 8” una brutta copia di “Christine”, ma a parte la macchina i punti di contatto sono veramente pochi. A me comunque, “Buick 8” e’ piaciuto.

Il titolo originale del romanzo e’ un omaggio ad un gran pezzo blues di Bob Dylan, “From a Buick 6”, qua magistralmente interpretato dal bluesman albino Johnny Winter (recentemente scomparso):

Barney

A drum is not (only) a drum

Sto leggendo la serie “La Torre Nera” di Stephen King, un fantasy-western che abbandonai ann^W decenni fa per impazienza e arrabbiatura nel dovere aspettare uno o due anni per sapere come continuava la storia. Adesso che la serie e’ conclusa, e’ comodo e divertente ripartire, arrivare dove m’ero fermato, e continuare fino alla fine.

Il protagonista della serie e’ l’ultimo dei pistoleri di una Terra parallela alla nostra e ad altre mille (King, con la solita maestria, incrocia molte delle sue Terre nella serie, inserendo rimandi e fatti accaduti in altri romanzi dentro a questo): Roland Deschain, che King immagina molte volte come il Clint Eastwood protagonista di un western di Leone a caso.

Io invece mi sono sempre immaginato Roland con la faccia di Stewart Copeland.

Capisco che possa sembrare strano, anzi: il segno certo d’un -come dire?- rincoglionimento precoce… ma la mia fantasia si basa essenzialmente sulla descrizione che King fa delle abilita’ di Roland;  nel libro si dice che il pistolero e’ cosi’ veloce ad estrarre le sue enormi pistole, a far fuoco, e a ricaricare da sembrare quasi soprannaturale, non umano. Ecco, lo stesso penso io di come Copeland suona la batteria.

M’e’ capitato di lodare Zak Starkey per la sua bravura, e definirlo “quello dei Beatles che suonava meglio” (non lo si direbbe figlio di Ringo Starr; oggi Zak suona con i Who), m’e’ capitato di parlare di Keith “the loon” Moon, che prima di Zak tambureggiava selvaggiamente assieme a Daltrey, Townshend ed Entwistle come il massimo dei drummer mai vissuti su questo piccolo pianeta… Stewart Copeland e’ qualcosa di differente: non solo grandissimo batterista, ma anche eccellente compositore e mente musicale di uno dei gruppi rock piu’ famosi di ogni epoca.

Dico subito che chi crede che i Police fossero Sting piu’ altri due cazzoni a caso prende una topica incredibile. Sting e’ famoso solo grazie a Copeland; le musiche di moltissimi dei pezzi piu’ famosi dei Police sono di Copeland e basta, gli arrangiamenti di quasi tutti i pezzi sono suoi. Prima di Copeland, Gordon Matthew Sumner era un Gigi D’Alessio qualsiasi (fidatevi); dopo Copeland, e’ diventato Sting.

Riguardero’ nei prossimi giorni “Rusty il selvaggio” (titolo originale “Rumble fish”) di FF Coppola, il primo film per il quale Copeland, oramai alla fine della storia dei Police, scrisse la colonna sonora. Capii tutto di quel che erano stati i Police (ovvero: Copeland piu’ gli altri due) quando ascoltai per la prima volta “Don’t box me in”, brano principale della colonna sonora. Eccolo:

Il film vedeva un mazzo di giovani promesse a recitare in un bianco e nero asfissiante e cupo, ravvivato solo dalle pochissime sequenze in cui i pesci combattenti del titolo originale guizzavano come schegge impazzite blu elettrico o rosso acceso in un angusto acquario. Matt Dillon, Michey Rourke, Nicolas Cage, Lawrence Fishburne, Sofia Coppola, una splendida Diane Lane e un Tom Waits barista furono protagonisti di uno dei film che piu’ impattarono sul mio cervello di sedicenne in cerca di se stesso e di risposte alla domanda fondamentale.

Dopo quello (e siamo nel 1983…) ho seguito la carriera di Copeland con molto interesse e altrettanta simpatia, probabilmente anche dovuta alla vita romanzesca che il batterista ha avuto (e’ figlio di due spie: un agente CIA e una agente dello spionaggio britannico, e’ cresciuto a Beirut, ha sempre girato moltissimo).

Ho apprezzato moltissimo la scelta di chiamarlo come maestro concertatore per la Notte della Taranta 2004, da cui e’ venuto fuori un concerto che vidi in diretta televisiva e che mi fa ancora drizzare i peli sulle braccia:

(purtroppo non riesco a trovare un audio in sincrono con il video. Non vi fate ingannare dalle immagini: Stewart non sbaglia mai un colpo, qui).

Ma il massimo lo raggiunge poco dopo, con questo progetto sempre italiano in cui finalmente fa quel che vuole fare da sempre: scrivere musica e suonarla dal vivo.

E’ “Orchestralli”, un concerto tutto scritto da lui per orchestra, percussioni e batteria.

La sua.

Nel viseo ci sono 40 minuti di interviste, musica e filosofia , in cui Copeland si racconta e ci racconta, oltre che suonare come sa il suo fantasmagorico set di tamburi e piatti.

Guardandolo suonare si nota subito  l’impostazione jazz della mano sinistra, e se ascoltate il suo racconto capirete da dove deriva, e anche come lui scherza su questo fatto (“sono un batterista con formazione classica”, dice piu’ o meno a un certo punto). Ma non si puo’ rimanere indifferenti alla velocita’ di esecuzione, alla precisione e all’energia che Stewart mette in ogni rullata.

Come dice lui, il batterista deve far ballare la gente che lo ascolta; ecco, lui lo sa fare di sicuro.

 

Barney

“Il passaggio”, Justin Cronin. Ed. Mondadori, 2011

Si prenda “The Stand” del Re, e lo si infili in un capiente shaker con “I am legend” di Richard Matheson.

Prima di dare il via al frullatore, si aggiungano pagine ben stagionate prese a caso dal “Dracula” di Bram Stoker, e riccioli di pellicola 16 mm tagliuzzati dalle pizze di “Mad Max“, “Il Signore degli Anelli” -e quello “delle Mosche“-, “L’alba dei morti viventi” e un altro paio di film di genere a vostro piacere.

Attivare quindi la velocita’ massima, non prima di avere inserito nel bicchierone anche ghiaccio, limone e angostura a piacere.

Quel che si ottiene, alla fine del processo, e’ “Il passaggio“, romanzone da quasi 900 pagine che rappresenta il primo tassello di una trilogia postapocalittica che dovrebbe terminare nel 2014.

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La copertina e’ quella della versione inglese, ma quella italiana e’ identica, tradotta

Se vi piacciono gli scenari postapocalittici stracolmi di personaggi e di situazioni, i salti di tempo e di spazio, gli scannamenti, le sospensioni della realta’, i romanzi in cui tutto inizia da un esperimento sbagliato condotto da una sezione deviata del Dipartimento della Difesa che ovviamente perde quasi subito il controllo della situazione, beh: io vi consiglio di andare in libreria (o su Amazon) e comperarvi “L’ombra dello Scorpione” (che non e’ altro che la traduzione di “The Stand” di cui all’inizio) di Stephen King, e leggervelo tutto d’un fiato.

Se invece vi piacciono i patchwork, “Il passaggio” e’ quel che fa per voi: l’idea di fondo e’ esattamente quella del libro di King, il risultato finale e’ sputato quello che Will Smith ha reso non malissimo nella riproposizione cinematografica del capolavoro di Matheson. E quando dico “esattamente” e “sputato” chiedo di essere preso alla lettera. Per dire: quante probabilita’ ci sono che due romanzi postapocalittici ambientati negli Stati Uniti destinino buona parte delle residue speranze del genere umano a cittadine che si trovano in Colorado? E quante probabilita’ ci sono che due romanzi postapocalittici si basino per buona parte sul fatto che due fazioni (che chiameremo per semplicita’ “i buoni” e “i cattivi”) sognino gli stessi sogni?

Ma le similitudini sono veramente tantissime: pure Cronin cede al facile rifugiarsi nella religione, non solo inserendo pure lui nel romanzo una figura messianica femminile (Amy, al posto della vecchia Abigail di King), non solo definendo fin da subito il bene e il male in maniera che nemmeno Borghezio si possa sbagliare (le suore, Mario… Le suore sono le buone. Incredibile, eh? E i condannati a morte per stupro plurimo e omicidio di massa, invece, sono i cattivi!), ma addirittura creando non uno, non due, non otto, ma dodici-cattivi-dodici, a significare l’AntiCristo e gli AntiApostoli (qua a Mario gli ci voleva er disegnetto: fatto!).

Una delle scene finali del romanzo, poi, e’ identica a una delle scene finali di “The Stand”, fin nella scelta del residuato bellico da far esplodere per eliminare definitivamente un bel po’ di cattivi.

Insomma, a me “Il passaggio” ha dato un senso di deja vu molto pronunciato. E m’ha quasi convinto ad investire venti Euro in “Joyland“, che e’ uscito solo in edizione cartacea (??!!!!). Potenza dell’ispirazione romanzesca…

Barney

Cornacchie (un racconto alla Gerald Durrell con un pizzico di Stephen King… e nulla piu’)

Da qualche anno -diciamo una quindicina- noto un aumento esponenziale di corvidi, dalle nostre parti. Cornacchie e taccole, ma anche gazze ladre si sono moltiplicate a dismisura, e rappresentano assieme ai gabbiani la maggioranza della fauna selvatica. Mi fanno un po’ impressione, le cornacchie, perche’ a terra hanno quel passo saltellato imposto da articolazioni poco adatte a camminare, e in volo manca loro la grazia dei rapaci o degli ardeidi. Non parliamo poi del verso, che e’ diventato il paradigma dei suoni sgraziati e -stavo per scrivere “gracchianti”- metallici.

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Ricordo la prima volta che vidi una cornacchia, da piccolo. Avro’ avuto sei o sette anni, e la bestia -che mi parve immensa- fu portata a casa da mio padre in una gabbia. Assieme alla cornacchia c’era un pappagallo (non nella stessa gabbia: pero’ arrivo’ a casa lo stesso giorno), e i due animali furono accomodati in garage, le loro gabbie appese a due chiodi nel muro.

Non ho memoria esatta di quel che successe poi, pero’ sono sicuro che le gabbie rimasero piene per poco tempo. Un giorno le trovammo entrambe aperte, non s’e’ mai saputo se qualcuno avesse rubato le bestie per portarle in una propria voliera, o se le avesse liberate in un impeto protoanimalista, oppure se addirittura i pennuti fossero riusciti da soli, a forza di becco, ad aprire il piccolo chiavistello e a guadagnar da soli il cielo.

Non e’ che gli animali mancassero, a quei tempi: mio padre aveva una voliera che aveva ospitato canarini, mandarini e bengalini sino probabilmente ad una fatale gelata invernale, e l’immensa gabbia vuota divenne presto il magazzino per uno zoo cangiante popolato da serpi, orbettini e moscardini. La povera fauna campava per quanto poteva, poi s’arrendeva all’ineluttabile idiozia di noi ragazzi e trovava piu’ sensato morire piuttosto che sperare che in un impeto di comprensione giovanile aprissimo loro i cancelli verso la campagna.

Quel che non poteva essere tenuto nella voliera era recluso in enormi mastelli di plastica da bucato: spinarelli, alborelle, raganelle, coleotteri acquatici e pulci d’acqua catturate nei fossi intorno alle case erano sempre presenti, spesso a divider la prigionia con le povere tartarughe d’acqua vinte al luna park dai ragazzi piu’ grandi. Avevamo, noi bimbetti, un unico enorme cruccio: pur essendo la zona in cui abitavamo in aperta campagna e quindi piena di boschi, stagni e fossi, non c’era traccia di tritoni.

Chi riusciva a recuperarne alcuni, durante gite da amici o parenti, acquisiva un prestigio notevole, seppure effimero, vista la capacita’ di questi anfibi di evadere anche da profonde prigioni di plastica.

A quei tempi (quasi quarant’anni fa… E il fatto che scriva “a quei tempi” e’ sintomo sicuro di rincoglionimento…) gia’ leggevo come un invasato. Avevo imparato (credeteci oppure no) da solo sia a leggere che a scrivere, grazie ai libri-alfabeto illustrati e alle lavagne con le lettere magnetiche. Ricordo (credeteci oppure no) la prima parola che scrissi sulla lavagna: “Balena”. Ricordo anche la stanza nella quale la scrissi (l’anticamera del garage della cornacchia).

Molte altre cose le ho dimenticate, ma tra quelle che ricordo c’e’ un libro che ho letto innumerevoli volte: “I figli dell’aria“, di Emilio Salgari. Ricordo che parlava di pirati su incredibili macchine volanti fatte di palloni, eliche e vele, e io passavo interi pomeriggi ad aspettare l’arrivo di una di quelle meravigliose macchine.

Mai vista una, nemmeno da lontano, ma questo mi serve per dire che guardavo il cielo, da piccolo, e avrei ricordato se le cornacchie, le taccole e le gazze erano una presenza normale. Non lo erano; anzi, era piu’ facile vedere una beccaccia che una cornacchia.

Allora, per tornare all’inizio: sono circa quindici anni che mi chiedo se c’e’ una ragione particolare per questa esplosione di corvidi. I gabbiani si sono inurbati per i rifiuti, i piccioni sono secoli che colonizzano ogni anfratto delle torri delle citta’ per nidificare in assoluta sicurezza, gli storni svernano nei parchi perche’ la temperatura e’ di qualche grado superiore a quella della campagna…

Ma i corvidi?

C’e’ qualche motivo evoluzionistico per la loro presenza, oppure si tratta semplicemente di psicopompi che ci avvertono dell’ineluttabile fine della nostra civilta’, e con la loro presenza ci accompagnano -meglio: accompagnano la nostra anima- verso il baratro?

Non lo so, davvero. So solo che sono tanti, e che la loro voce metallica la si sente molto spesso, cosi’ come molto spesso si vede il loro volo strappato e potente.

Forse… forse ha ragione il Bianconi nella sua migliore canzone:

Io sono il corvo Joe
faccio paura
state attenti lasciatemi stare
solo certi poeti del male mi sanno cantare!
Ma vi perdono
perchè in fondo portate nel cuore
sangue che è destinato a seccare
vivete un morire

D’altronde, EA Poe ha scritto quel capolavoro che e’ “The raven” avendo in mente non certo una colomba, no?

Only this, and nothing more!

Barney