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A volte ritornano: Nettuno (7 di 7)

E con Nettuno si chiude la ripubblicazione sul blog di Tratto d’unione dei sette pezzi facili illustrati da Davide Lorenzon, e pensati per quella bellissima esperienza che fu Cartaresistente.

La serie si chiude con una strizzata d’occhio alla panspermia, che tutto sommato è tra le teorie più plausibili sul come la vita possa essersi diffusa nell’Universo (molto più plausibile di quello che vi racconterebbero quelli di Scientology (C), e sicuramente meno costosa).

Al tempo (era il 1835, circa…) avevo associato ai sette pezzulli dei brani musicali, a Nettuno era toccato questa splendida -e in tema- canzone dei Pearl Jam, che ci sta davvero bene anche oggi:

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°9: Spiegelman e Levi

Non so quanti siano attualmente i sopravvissuti ai lager nazisti della seconda guerra mondiale, ma ogni giorno sono sempre drammaticamente meno: il tempo gioca contro di loro, e la necessita’ di mantenere il ricordo, la memoria di quello che è successo è – a maggior ragione – un dovere per ciascuno di noi.
I due libri del parallelo di oggi sono libri della memoria: raccontano le storie di due sopravvissuti, una narrata direttamente dallo scampato Primo Levi, l’altra disegnata da Art Spiegelman che riporta su tavola la vita del padre.

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I libri sono “La tregua” e “Maus”, e il romanzo di Levi è stato scelto al posto di “Se questo è un uomo” essenzialmente perché “La tregua” – come “Maus” – è stato scritto parecchi anni dopo gli orribili avvenimenti di Auschwitz. Il tempo è servito sia a Primo Levi che ad Art Spiegelman (un po’ meno a Vladek, padre di Art) per metabolizzare sin dove possibile l’esperienza del lager, e non stupisce che sia Levi che Anja (la madre di Spiegelman) si siano suicidati, a distanza di decenni dalla loro liberazione anche a causa dei traumi psicologici subiti in quei giorni.

“La tregua” racconta il ritorno romanzesco e avventuroso di Levi dalla Polonia a Torino, attraverso l’Europa devastata dalla guerra e i mille personaggi sopravvissuti, come l’autore, al conflitto.
Il romanzo inizia con la rievocazione – attraverso una poesia – del campo di concentramento, e della secca sveglia mattutina rappresentata da una sola parola, urlata dalle guardie: “Wstavac!”, ovvero: “Alzarsi!”. L’ordine perentorio arrivava tutte le mattine a interrompere i sogni fatti di cibo, casa, racconti.
La stessa parola ritorna, alla fine della poesia, a ricordare che tutto è stato fatto, di quel che era stato sognato, e che il tempo è terminato. “Wstavac” e’ anche la parola che chiude il romanzo, a determinare circolarmente l’incancellabilità del ricordo di quei giorni.
Molti dei personaggi risaltano per la filosofia spicciola che ci propinano. Come ad esempio l’ebreo greco Nahum che detta le priorità in periodi di conflitto:
“Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo luogo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovare da mangiare, mentre non vale l’inverso”.
“Ma la guerra è finita” obiettai: e la pensavo finita, come in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi.
“Guerra è sempre” rispose memorabilmente Mordo Nahum.

“Maus” è l’intera vita di Vladek Spiegelman faticosamente estorta all’uomo da suo figlio Art, e ancor più faticosamente trasformata in un romanzo a fumetti. I personaggi sono stati disegnati come animali: tutti gli ebrei sono topi, i nazisti ovviamente gatti, i polacchi sono maiali, gli americani cani, e così via.
Il romanzo è ricorsivo: in molte pagine Spiegelman disegna se stesso che intervista suo padre per la stesura del libro stesso, o mentre parla con sua moglie della difficoltà di andare avanti con il progetto; sopra tutto aleggia la figura di Vladek, quasi una macchietta per come racchiude in se i vari luoghi comuni affibbiati agli ebrei: tirchiaggine, razzismo, fatalismo. Splendide le pagine in cui Art racconta il suicidio di sua madre, e – unico caso in tutto il libro – disegna personaggi umani. Lui si raffigura con la divisa a strisce degli internati ad Auschwitz, a chiudere un cerchio generazionale, e prendere su di se parte del fardello dei ricordi di famiglia.

Perché questo sono sia “La tregua” che “Maus”: un piccolo peso che pure noi possiamo – anzi, forse dobbiamo – portare, da passare alle generazioni future perché la memoria dell’orrore non si perda, perché non si facciano due volte gli stessi, tragici errori.

“Maus”, Art Spiegelman, Einaudi Editore
“La tregua”, Primo Levi, Einaudi Editore

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°8: Reviati e Hornby

Il calcio come metafora di vita, fede incrollabile e pietra di paragone per il resto del mondo -fidanzata inclusa -, oppure come unico svago, ma svago dannatamente serio, in un paese che deve fare i conti con le contraddizioni di una industrializzazione rapida e selvaggia.
Lo sport popolare per eccellenza, il passatempo che ha bisogno solo di un po’ di gente e di spazio – e di una palla… – è il protagonista di “Febbre a 90′”, di Nick Hornby e di “Morti di sonno”, di Davide Reviati.

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Entrambi i romanzi partono dalla fanciullezza dei due protagonisti e ne seguono la maturazione di partita in partita: vista allo stadio in “Febbre a 90′”, giocata all’ultimo sangue nel campetto ai giardini in “Morti di sonno”.

I due mondi che fanno da sfondo alle storie sono molto differenti: la Londra di Hornby dal 1968 ad oggi è una metropoli in cui la middle class se la cava decentemente, e andare allo stadio la domenica è un rito molto più normato che le funzioni in chiesa. Si assiste, nel libro, alla evoluzione delle tifoserie da chiassose e urlanti orde di innocui fanatici storditi dal pranzo domenicale a covi di sanguinari hooligans, evoluzione che va di pari passo con la feroce emersione della crisi sociale del periodo Thatcheriano. Tragedie immani, come i novantacinque morti di Hillsborough del 1989, punteggiano il racconto e costringono alla fine l’Inghilterra all’ammodernamento di stadi centenari, in cui la gente seguiva la partite in piedi, in equilibrio instabile su gradoni di cemento e legno. L’Heysel, qualche anno prima, aveva contribuito all’inizio della fine degli hooligans.

Il fumetto di Reviati racconta l’esplosione di benessere legato al boom economico dell’Italia degli anni ’60-’70. È il periodo di Mattei e della chimica all’avanguardia, che sforna meraviglie e veleni in pari quantità. E produce anche profondi cambiamenti sociali: la storia si svolge in un villaggio vicino all’enorme sito produttivo ANIC di Ravenna; il villaggio – una piccola enclave autosufficiente – è stato fortemente voluto da Mattei, e raccoglie le famiglie degli operai del petrolchimico, un benefit aziendale ante litteram.
In Reviati il calcio è l’esorcismo giovanile per non pensare al pericolo sempre imminente di incidente chimico, una fuga di sostanze, un’esplosione catastrofica che sempre incombono sulla piccola comunità, come le morti non così infrequenti di vari operai in orribili incidenti spesso solo ipotizzati.
Il calcio è pure una delle poche vie di fuga da una vita segnata in partenza, che vede lo sbocco logico del lavoro al petrolchimico come la meta da tutti presagita – e temuta – sin dalla più tenera età. Chi gioca bene può pensare di farsi una esistenza altrove, a patto che resista alle feroci partitelle tra ragazzi in cui perdere è un disonore. In una di queste viene distrutto il ginocchio di Crujiff, un ragazzo che gioca bene come l’olandese del calcio totale. Lo ritroveremo ogni tanto, Crujiff, a guardare dalla sua finestra gli ex-compagni giocare, con le fide Puma a sei tacchetti ingrassate di fresco accanto a lui sul davanzale.
È feroce, l’Italia di Reviati, e non fa sconti a nessuno. Il lieto fine qua è solo accennato; come finisce “Febbre a 90′” – invece – credo lo sappiano tutti.

“Febbre a 90′”, di Nick Hornby. Guanda Editore.
“Morti di sonno”, di Davide Reviati. Edizioni Coconino Press.

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°7: Coe e Van Hamme-Vallès

Le saghe familiari hanno sempre avuto notevole successo di pubblico, sia in letteratura che su pellicola, perché permettono di sviscerare molti aspetti della psicologia umana, di giocare con i sentimenti di molti protagonisti, di raccontare un periodo storico o un luogo con dovizia di particolari, quasi ci si trovasse davanti ad un acquerello dettagliatissimo che si fa scoprire poco a poco. Se poi pensiamo alle telenovelas, che si trascinano per decenni e miliardi di puntate… beh, più che acquerelli sembrano brodaglie. Ma pure loro agganciano alla sedia milioni di affezionati telespettatori.

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Il parallelo di quest’oggi mette accanto due storie che si dipanano per vari decenni, e i cui protagonisti sono i membri di due ricche famiglie: una inglese e l’altra belga.
I libri in questione sono “La famiglia Winshaw” di Jonathan Coe e “I maestri dell’orzo”, scritto da Jean Van Hamme e disegnato da Francis Vallès.

Del libro di Coe scriverò poco, visto che l’ho riesumato poche settimane fa in occasione della morte di Margaret Thatcher. È uno splendido romanzo del 1994, che racconta i primi passi nelle assemblee studentesche, l’ascesa al potere politico e la caduta della Lady di ferro, dagli anni ’60 fino ai primi anni ’90 del secolo scorso, e lo fa utilizzando la storia di una famiglia immaginaria – i Winshaw appunto – i cui membri diverrano ben presto gli esempi perfetti del peggior conservatorismo pseudo liberale dei Tories di quegli anni.

Parallelamente (e l’avverbio qua ci sta davvero bene), ne “I maestri dell’orzo” Jean Van Hamme ci racconta la saga della famiglia Steenfort e di come – dalla fuga d’amore dell’ex-novizio Charles Steenfort dall’Abbazia nella quale avrebbe dovuto diventare frate trappista – nasca la piu’ grande stirpe di birrai belgi.
Si parte nel 1854 e si finisce alle soglie degli anni 2000; la storia si svolge soprattutto nella cittadina di Dorp, e il fumetto è scandito dai vari protagonisti e dalle loro vite che si intrecciano con la Storia, la grande storia di fine ‘800 ed inizio ‘900 (le prime ribellioni operaie, la grande guerra, la seconda guerra mondiale) e quella meno grande degli anni ’90, fatta di speculazioni, di lotte industriali e di feroci scalate di imprese concorrenti.
Splendidi i disegni di Vallès, che rappresentano lo stereotipo della “ligne claire” resa famosa da Hergè e dal suo famosissimo Tintin, splendida la sceneggiatura e la costruzione di ciascuno dei sette volumi originari: ogni puntata è dedicata ad uno dei membri della famiglia, ed inizia con un disegno a due pagine del paese di Dorp, a far vedere l’evoluzione architettonica e sociale del paesino che anno dopo anno segue l’ingrandirsi della Birreria Steenfort.
Dopo questa introduzione visiva, Van Hamme inserisce una mezza pagina di didascalia che ricorda alcuni avvenimenti importanti dell’anno cui si riferisce il capitolo, cosi’ da inquadrare storicamente la saga, perché – come ho già scritto – la storia degli Steenfort così come quella dei Winshaw si svolge nel mondo reale e ne segue le vicissitudini e i drammi.

Se il volume di Coe è facilmente reperibile in qualsiasi libreria, “I maestri dell’orzo” sono un tesoro da cercare con cura e tenacia in rete o sulle bancarelle dell’usato, in attesa che qualche editore illuminato si decida a ristamparlo.

“La famiglia Winshaw”, di Jonathan Coe. Feltrinelli
“I maestri dell’orzo”, Jean Van Hamme e Francis Vallès. Eura Editore – Nel 2005 la serie completa e’ stata ristampata all’interno della collana “I classici del fumetto” di Repubblica.

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°6: Heinlein e Miller

 

La guerra è l’elemento che accomuna i due libri di oggi: “300” di Frank Miller (con gli splendidi colori di Lynn Varley) e “Fanteria dello spazio” di Robert Anson Heinlein.
Due opere discusse, ritenute un inno (quasi) fascista al machismo del combattimento, due libri da cui sono stati tratti due film di opposta fortuna (“300”, sostanzialmente una prova d’autore che ripropone fedelmente il fumetto, spesso con inquadrature identiche alle tavole di Miller, è stato accolto positivamente dal pubblico ed ha incassato parecchie centinaia di milioni di dollari, “Starship troopers” è considerato un “B movie” e si allontana in molti aspetti dal romanzo), due letture comunque di sicuro impatto emotivo.

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“Fanteria dello spazio” usa una guerra con una popolazione di ragni alieni come canovaccio per parlare anche – anzi: soprattutto – di politica e di filosofia. Nel futuro immaginato da Heinlein solo gli ex soldati possono votare, e solo loro possono insegnare Storia e Filosofia. Il Professor Dubois (per quanto detto prima, ex-fante spaziale) così sentenzia rispetto ai valori universali dell’uomo:
“Le cose più belle della vita sono al di là del denaro. Il loro prezzo è agonia, sudore, devozione, e il prezzo richiesto per la piu’ preziosa di tutte le cose della vita e’ la vita stessa, costo ultimo per un valore perfetto.”

Un altro insegnante, il Maggiore Reid, spiega i motivi del successo del sistema politico in vigore:
“Dunque, dove sta la differenza? Ipotesi ne abbiamo ascoltate abbastanza, perciò ora vi darò io la definizione esatta. Con il nostro sistema, ogni elettore e ogni governante è un uomo che ha dimostrato, con anni di duro servizio volontario, di considerare il benessere della maggioranza più importante di quello personale. Questa è l’unica differenza pratica con il non elettore. Può mancare di saggezza, può scarseggiare in virtù civiche ma la sua prestazione media è assai migliore di quella di qualsiasi altra classe dirigente della storia.”

[Questa considerazione di Reid potrebbe spiegare perche’ la politica italiana degli ultimi venti anni ha questa bassissima qualita’…]

“300” racconta – romanzandola per tavole sviluppate in orizzontale in un inconsueto formato rettangolare “largo” – la battaglia delle Termopili, dove un piccolo esercito di Greci riuscì a ritardare di molti giorni l’avanzata della colossale macchina da guerra approntata da Serse. Il sacrificio di quelle poche migliaia di greci (e dei trecento spartani del titolo) compattò l’intera nazione e permise – nei mesi successivi – la vittoria.

La prosa di Miller è epica e cameratesca. Delio, il cantore della battaglia, vede così il glorioso primo giorno di combattimento:
“Con i cuori uniti in un canto muto… attacchiamo. Spalla a spalla, scudo contro scudo… con gli occhi fissi su quelli dei nostri odiati nemici, assaporando il loro crescente terrore… colpiamo. Uniti, fusi come una sola creatura… indivisibili, impenetrabili, inarrestabili… incalziamo.”

Nelle ultime pagine, alla fine di una strenua e sanguinosa resistenza, oramai vicino alla capitolazione, Leonida spedisce Delio a Sparta, perché la memoria dell’eroismo dei trecento si tramandi. Ecco come i due si accomiatano:
“Sire… Avete qualche messaggio per la Regina?”
“Niente che vada detto a voce”

In “300” molte cose non sono dette a voce: le immagini (come e’ giusto che sia in un fumetto) hanno il sopravvento sulle parole, ma proprio le parole – alla fine – risulteranno l’arma determinante per vincere la guerra; ugualmente, in “Fanteria dello spazio” – romanzo dedicato per più della metà alla formazione del fante spaziale prima e dell’ufficiale poi – le lezioni filosofico – politiche quasi prevalgono sull’azione (che pure è molto presente), a sottolineare anche lì l’importanza del pensiero e del ragionamento.

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°5: Taniguchi e McCarthy

I due libri “paralleli” di oggi hanno parecchi punti in comune, ma quello che più spicca è che tra i protagonisti principali c’è in entrambi i casi la morte.

L’argomento è interessante di per se – che lo vogliamo o no, la morte è il sipario sull’esistenza di ciascuno di noi -, ma in “Un cielo radioso” di Jiro Taniguchi e ne “La strada” di Cormac McCarthy la morte non è la fine (è per questo che nella foto qua sotto si vedono i due libri e sullo sfondo un Nick Cave che canta assieme a Shawn McGowan e a Kylie Minogue “Death is not the end“): è piuttosto una ripartenza per Takuya (nello splendido fumetto di Taniguchi) e per l’innominato figlio dell’innominato padre protagonisti del postapocalittico romanzo di McCarthy (che vinse a suo tempo il Pulitzer).

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In entrambi i libri si avverte l’immanenza della morte, esplicitamente dichiarata nel caso di “Un cielo radioso”, e aspettata dal lettore quanto meno come alleviatrice delle sofferenze dei protagonisti in “La strada”.
In entrambi i libri il rapporto padre-figlio è l’altro vero protagonista del romanzo, anche laddove i due protagonisti non sono biologicamente padre e figlio, ma forse addirittura qualcosa di più (è il caso di “Un cielo radioso”).

In sottofondo, a fare da indispensabile scenografia, due storie completamente diverse sia per ambientazione che per prospettive finali, che partono entrambe da un fatto drammatico (un incidente stradale nel fumetto, una imprecisata catastrofe mondiale nel romanzo).
Due storie in bianco e nero (il fumetto ha solo le chine e il tratto pulito ed occidentale tipico di Jiro, il romanzo vive in un continuo paesaggio di grigi e di bianchi ben rappresentato sia nella copertina dell’edizione inglese, sia in quella della traduzione di Einaudi) che pero’ terminano catarticamente con immagini di cui i due autori vogliono prepotentemente fare avvertire i colori: le trote iridee con i riflessi arcobaleno che guizzano nella pozza d’acqua di McCarthy, e il cielo radioso e sereno del mattino di Taniguchi.

Due visioni di catastrofi inevitabili che, però, lasciano lo spazio ad un finale aperto… perché forse appunto la morte non è che un nuovo inizio.

“The Road”, di Cormac McCarthy. Edizioni Picador (UK). In Italia, “La strada” (Einaudi).
“Un cielo radioso”, di Jiro Taniguchi (Coconino Press).

Questa invece è “Death is not the end” di Bob Dylan, cantata da Nick Cave and the Bad Seeds, in “Murder Ballads”, 1996:

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°4: Szilard e Mieville

Stavolta il parallelo è (almeno a prima vista) tra due libri “normali”, fatti di parole, e non tra un romanzo e un fumetto.
In più, uno dei due è un racconto di poche pagine. Infine, proprio perché non ci facciamo mancare nulla, si tratta in entrambi i casi di scritti di genere, e in particolare di quel sottogenere inviso a molti in Italia che è la fantascienza. Se non vi bastasse, la maggioranza dei protagonisti di entrambe le opere non è umana, e v’è nelle due opere più d’un accenno a teorie marxiste-leniniste.

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Però… però in tutti e due i casi il luogo centrale dell’azione è una stazione ferroviaria, e cosa c’è di più parallelo dei binari di un treno?
Quindi – nel caso siate sempre li’ a leggere – i protagonisti del “Parallelo” di oggi sono “Perdido Street Station” di China Mieville, e “Grand Central Terminal” di Leo Szilard (con le mirabili illustrazioni di Gipi).

Il romanzone di Mieville è una lettura affascinante, contorta, complessa, ma mirabilmente condotta verso un epilogo in cui tutto l’enorme costrutto si tiene e si spiega. Una lunga impressione di lettura si trova qua, io non posso che ri-suggerirlo.

Il racconto di Szilard merita un paio di paragrafi in più, non foss’altro che per presentare l’autore.
Leo era un fisico nucleare, membro di punta del Progetto Manhattan dal quale videro la luce le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Conscio della tremenda potenza distruttiva degli ordigni cui contribuì in modo sostanziale, Szilard tentò di fermare i bombardamenti atomici sul Giappone, la storia ci racconta con quale successo.
Alla fine della guerra, cambiò vita e si dette alla biologia e alla scrittura, e il racconto di oggi ne è testimonianza tangibile.
La Grand Central Terminal è la stazione principale di New York; qua è il teatro di un esilarante, grottesco e toccante racconto post-nucleare che figura in molte antologie per i licei come esempio sia di letteratura pacifista, sia di rovesciamento della prospettiva, un po’ come succede nell’altrettanto famoso “Sentinella” di Frederick Brown.
L’edizione di Orecchio Acerbo è impreziosita dalle spendide tavole di Gipi, che completano perfettamente il racconto trasformandolo in un fumetto sui generis. L’operazione è facilitata dalla struttura del racconto, impostato come una relazione scientifica ma in tono discorsivo sull’esplorazione della stazione.
I dipinti di Gipi rafforzano nel lettore la sensazione di desolazione e allo stesso tempo di curiosita’ che viene dalla lettura dalle parole di Szilard, a configurare un prodotto che va oltre il racconto originale e – forse… – giustifica l’accostamento con l’opera di Mieville.

“Perdido Street Station”, di China Mieville. Edizioni Fanucci
“Grand Central Terminal”, di Leo Szilard con illustrazioni di Gipi. Edizioni Orecchio Acerbo

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°3: Tolkien e Smith

Due mattoni da più di milletrecento pagine, due saghe che hanno fatto la storia di letteratura e fumetto, due romanzi fantasy in cui il personaggio principale è il più comune tra i protagonisti, e uno dei suoi amici e protettori ha super poteri inimmaginabili, e i cattivi sono veramente cattivi.

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“Bone” di Jeff Smith e “Il Signore degli anelli” di J.R.R. Tolkien, insomma.

Della trilogia tolkeniana tutti sanno tutto, soprattutto grazie ai film di Jackson (sperando che in molti abbiano pure letto il libro…), le righe rimanenti le userò quindi per “Bone”.

Il fumetto di Smith è la storia di tre cugini che – scacciati da Boneville, la loro città – capitano nella Valle, l’equivalente della Terra di Mezzo del romanzo di Tolkien.
Nella Valle combatteranno il Male alleandosi con gli abitanti del posto. Semplice, lineare e classicamente perfetto.

Come in Tolkien i protagonisti non sono umani: nel Signore degli Anelli Frodo e i suoi compagni della Contea sono Hobbit, mezz’uomini. Qua sono buffi personaggi che somigliano a pupazzi, che però interagiscono con uomini, draghi e mostri vari, spesso risultando più umani dei loro corrispettivi.
Rispetto alla trilogia tolkeniana, “Bone” ha una punta di amara ironia che allevia il dramma incombente, e alcuni spunti del tutto comici. È un libro adatto a una vasta fascia di età, direi dagli otto anni in su. Con l’unica avvertenza di fare attenzione sul serio al peso del malloppone, poco gestibile dalle piccole mani dei bambini.
Una chicca per chi come ma ha quel libro come totem: Fone Bone, il protagonista del fumetto di Smith, ha una sacca con dentro i suoi tesori. Uno di questi, il più prezioso, è una copia di “Moby Dick” di Melville.

“Bone”, di Jeff Smith (Bao Publishing)
“Il Signore degli Anelli”, J.R.R. Tolkien (Bompiani)

 

Barney

 

 

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°2: Spiegelmann e Meyssan

Paralleli divergenti in questo caso, tra un fumetto serissimo nella sua opera di documentazione d’un dramma raccontato in presa diretta, e un romanzo-inchiesta a teorema, che vorrebbe dimostrare la falsità e l’inconsistenza della versione ufficiale dello stesso dramma.
L’episodio preso in esame è famosissimo: l’attacco all’America dell’11 settembre 2001, e ci viene raccontato attraverso il World Trade Center caduto a New York, disegnato qualche settimana dopo da Art Spiegelmann ne “L’ombra delle Torri“, e l’aereo caduto sul Pentagono pochi minuti dopo l’attacco a New York, che secondo il Therry Meyssan di “L’incredibile menzogna” non e’ mai esistito.

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I punti di vista opposti nascono da esperienze nemmeno lontanamente comparabili tra di loro: Spiegelmann che vive da sempre a New York, e che ci racconta l’ansia di sapere la figlia proprio nella zona dell’attacco, al suo terzo giorno di scuola, la corsa pazza e senza fiato alla ricerca di informazioni, l’orrore in successione dei crolli delle due Torri, l’odore nauseante delle settimane successive che ricorda quello che suo padre gli ha raccontato dei camini di Auschwitz… e Meyssan, che costruisce tutto il suo libro su assunti e prese di posizione del tutto arbitrarie, e lo fa “osservando” foto e filmati dalla Francia, senza nemmeno aver visto da vicino i luoghi di cui millanta di sapere tutto, che ci racconta di bugie e coincidenze incredibili, che discetta di ingegneria e tecnologie aeronautiche non avendo una base nemmen minima per farlo.

Io – ve lo dico subito – sto con Spiegelmann; ma i due libri leggeteli entrambi, perche’ solo il fatto che si possano esprimere idee cosi’ diverse su un episodio che tutti abbiamo vissuto e’ stupefacente e meraviglioso allo stesso tempo.

Art Spiegelmann “L’ombra delle Torri”, Einaudi 2004
Thierry Meyssan “L’incredibile menzogna”, Fandango Libri 2002

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°1: Baru e Izzo

Ri-leggere un libro è un atto che richiede volontà: non capita per caso, soprattutto quando dopo il primo ne rileggi un secondo che avevi già in mente dall’inizio, come nel caso che riempie il resto del post.

L’autoroute du Soleil” di Baru e “Casino totale” di Izzo sono rispettivamente una graphic novel disegnata da un francese del nord est quasi come fosse un manga giapponese, e un romanzo scritto da un francese del sud che si può etichettare “poliziesco hard boiled” ma anche racconto politico, diario musicale e ricettario assolutamente accurato di piatti della tradizione marsigliese.

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Entrambi pubblicati nel 1995, raccontano una Francia che sta facendo i conti in quegli anni con il prepotente ritorno del nazionalismo del Front National di Le Pen, e lo fanno incontrandosi idealmente a Marsiglia, città teatro delle gesta del poliziotto Fabio Montale di Izzo e luogo di fuga per Karim e Alexandre di Baru, che partono dalla Lorena per un viaggio picaresco nel profondo della Francia rurale.

In entrambi i libri si avverte l’anarchia dei protagonisti, e se nel fumetto si gusta il tratto splendido di Baru per tutto ciò che non è umano (le Citroën paiono fotografate, invece che disegnate) e la scanzonata ed incosciente gioventù dei due fuggitivi, in Izzo l’amaro fatalismo di Montale ci pervade, e ci lascia soltanto quando il poliziotto cucina, o quando va – da solo – in barca.

Tornando alla premessa iniziale, forse la ragione inconscia che mi ha spinto alla rilettura è proprio lo strato politico che entrambe le opere posseggono, il rifiuto di lasciare la società nelle mani di un nuovo fascismo che appare meno duro di quello vecchio, ma infinitamente più subdolo e pericoloso.

 

Barney