La fine (??!!!) della pandemia mi porta -purtroppo- sempre piu’ spesso in ufficio, il che comporta un ritorno alla classica vita da pendolare: almeno due ore al giorno buttate via tra andata e ritorno, sveglia almeno mezz’ora prima di quando lavoro da casa e corse per non perdere le coincidenze treno-autobus.
Tra le cose belle della vita da pendolare c’e’ la possibilita’ di fotografare nature morte steampunk, composizioni casuali che solo l’interazione giornaliera di una massa caotica di viaggiatori con le infrastrutture Trenitalia puo’ generare. Infatti, negli ultimi due anni pur facendo molta attenzione ai binari ho trovato poca roba interessante.
Fino all’altro giorno, quando al mattino m’e’ apparso questa roba qua:
Il povero spazzolino da denti appare solitario sulla traversina, chissa’ se buttato via da mano incivile o perche’ vittima di uno smarrimento da fretta di prendere il treno.
La colonna sonora perfetta per la composizione e’ Mark Lanegan che canta “One way street”. Abbiamo perso anche lui, quest’anno…
Una filosofia da muro su un treno, che è una cosa che capita spesso a chi fa il pendolante tutte le mattine. Inclusa quindi Katia che di nick fa proprio Pendolante, e che ringrazio per l’invio.
Il gelato è molto simile al Sammontana ma con le corna, la scritta a me fa venire in mente la famosa frase da muro “Dio ti ama, ma Satana fa quella cosa che ti piace con la lingua”, che potrebbe far venire in mentea chi legge un finale musicale con Mick Jagger, anche perchè qua c’è addirittura un cono -gelato- di mezzo.
E invece no, vi ribeccate Margo Timmins e i suoi fratelli che elaborano sul concetto di (essere) un angelo e (sembrare) un diavolo.
Una filosofia da treno più che da muro, come accade spesso ai pendolari come me:
Incuriosito dalla scritta, ho chiesto lumi a San Google, che repente m’ha indicato la fonte: una (scusare il termine) canzone trap che si intitola “Fiori del male” (e Charles Baudelaire si rivolta nella tomba) e che è (scusate di nuovo) cantata dalla Dark Polo Gang e da Sfera Ebbasta. Ho ascoltato il brano e non vi sottopongo alla stessa prova, vi basti sapere che il tema è sempre il solito: soldi facili per farsi dieci grammi di qualcosa o dieci litri di qualcos’altro. E’ però interessante il brano perché parla anche di mamme che vedono arrivare i figli a casa pieni di soldi, e non chiedono da dove sono arrivati (ce lo dicono i tre fenomeni sopra: da roba venduta davanti alle scuole). L’unica strofa decente è quella vergata sul treno, insomma, ed è proprio rivolta ai vecchi (vulg.: quelli sopra i 25 anni) che han permesso alla generazione dei trap-pisti di regredire al livello del cercopiteco, il che è probabilmente anche vero.
Dal punto di vista musicale siamo a zero, le voci sono tutte auto-tunate, non solo perché non san cantare questi qua, ma soprattutto perché l’auto-tune è LO strumento per questo tipo di musica.
E quindi non mi resta che mettere qualcosa di un pò più elaborato, e divertente. E pure intonato al periodo: i Dropkick Murphys, con uno dei video di Natale più divertenti che io conosca.
Che in realtà è filosofia da treno merci, e quindi potrebbe anche andare sotto la categoria “Still life”.
M’è passata davanti qualche mattino fa, mentre ero in attesa del mio treno per pendolari, e mi sono fatto qualche decina di metri per rincorrere il vagone e fotografare la scritta. Questa:
Una traduzione da bestseller italiano potrebbe essere “và dove ti porta il cuore, ma solo se vuole la pizza”, una colonna sonora adeguata potrebbe essere “Listen to your heart” dei Roxette, e tutto potrebbe finire qua, ma non ci sarebbe filosofia…
Mi piace della scritta prima di tutto il colore: un azzurro turchese fluo che copre anche la parte che della pizza dovrebbe essere rosso pomodoro. Poi il tipo di pizza: azzarderei una “salame piccante e cipolla”, con abbondante spruzzata di origano. Il tutto lascia pensare a un writer (Mazo Mazo, si legge a sinistra, in giallo salame) che qualche sostanza psicotropa ogni tanto la usa, e che vede la vita in maniera scanzonata.
Una fetta di pizza che si merita più dei Roxette, in ogni caso:
[Questo pezzo è stato scritto per e pubblicato su Cartaresistente, il 21 marzo 2013]
Stavolta il parallelo è (almeno a prima vista) tra due libri “normali”, fatti di parole, e non tra un romanzo e un fumetto.
In più, uno dei due è un racconto di poche pagine. Infine, proprio perché non ci facciamo mancare nulla, si tratta in entrambi i casi di scritti di genere, e in particolare di quel sottogenere inviso a molti in Italia che è la fantascienza. Se non vi bastasse, la maggioranza dei protagonisti di entrambe le opere non è umana, e v’è nelle due opere più d’un accenno a teorie marxiste-leniniste.
Però… però in tutti e due i casi il luogo centrale dell’azione è una stazione ferroviaria, e cosa c’è di più parallelo dei binari di un treno?
Quindi – nel caso siate sempre li’ a leggere – i protagonisti del “Parallelo” di oggi sono “Perdido Street Station” di China Mieville, e “Grand Central Terminal” di Leo Szilard (con le mirabili illustrazioni di Gipi).
Il romanzone di Mieville è una lettura affascinante, contorta, complessa, ma mirabilmente condotta verso un epilogo in cui tutto l’enorme costrutto si tiene e si spiega. Una lunga impressione di lettura si trova qua, io non posso che ri-suggerirlo.
Il racconto di Szilard merita un paio di paragrafi in più, non foss’altro che per presentare l’autore.
Leo era un fisico nucleare, membro di punta del Progetto Manhattan dal quale videro la luce le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Conscio della tremenda potenza distruttiva degli ordigni cui contribuì in modo sostanziale, Szilard tentò di fermare i bombardamenti atomici sul Giappone, la storia ci racconta con quale successo.
Alla fine della guerra, cambiò vita e si dette alla biologia e alla scrittura, e il racconto di oggi ne è testimonianza tangibile.
La Grand Central Terminal è la stazione principale di New York; qua è il teatro di un esilarante, grottesco e toccante racconto post-nucleare che figura in molte antologie per i licei come esempio sia di letteratura pacifista, sia di rovesciamento della prospettiva, un po’ come succede nell’altrettanto famoso “Sentinella” di Frederick Brown.
L’edizione di Orecchio Acerbo è impreziosita dalle spendide tavole di Gipi, che completano perfettamente il racconto trasformandolo in un fumetto sui generis. L’operazione è facilitata dalla struttura del racconto, impostato come una relazione scientifica ma in tono discorsivo sull’esplorazione della stazione.
I dipinti di Gipi rafforzano nel lettore la sensazione di desolazione e allo stesso tempo di curiosita’ che viene dalla lettura dalle parole di Szilard, a configurare un prodotto che va oltre il racconto originale e – forse… – giustifica l’accostamento con l’opera di Mieville.
“Perdido Street Station”, di China Mieville. Edizioni Fanucci
“Grand Central Terminal”, di Leo Szilard con illustrazioni di Gipi. Edizioni Orecchio Acerbo
Due immagini al prezzo di una, entrambe su treni per pendolari dell’Italia centrale.
Ho messo assieme quella di Pendolante e una mia perché esprimono violenza in modi diversi. La foto di Katia è splatter tarantinesco-Dexteriano che fa sorridere, nessuno lo prende sul serio:
La mano è allenata a scrivere con la bomboletta, con lettere a metà tra il gotico nazista e il l33t che denotano un tasso di nerdaggine notevole, magari la sega circolare è l’arma di riferimento dell’avatar del graffitaro in qualche FPS massivo.
L’altra scritta l’ho fotografata io, dentro un treno che potrebbe essere il gemello di quello di Katia, ma dall’altra parte dell’Appennino:
Qua la rabbia, la frustrazione, l’odio per i negr i nigeriani si avverte dal primo momento, e se ce ne fosse bisogno lo stizzito personaggio sottolinea due volte tutta la frase.
Tutta meno “Faculo dal“, che non è un typo ma proprio lo specchio del livello culturale (scusate il termine) del graffitaro. C’è addirittura spazio tra “Fa” e “culo”, una “n” ci sarebbe stata se la frase fosse stata riletta oltre che sottolineata. Ma tant’è: questo è il messaggio che il coraggioso suprematista-nazionalista ha voluto lasciare a chi fosse salito sul treno dopo di lui, sforzandosi tra l’altro nel recupero di quelle abilità manuali faticosamente imparate nei lontani e terribili anni delle scuole elementari (usare una penna, scrivere lettere, cercare di mettere in fila soggetto, verbo e complemento oggetto…).
Qua non siamo di fronte a uno che gioca a Grand Theft Auto. Qua siamo davanti a uno che purtroppo ci crede, e che magari alla fine prende una pistola e gli spara, ai negr ai nigeriani che non sono andati a faculo dal nostro paese. Che poi, mi piacerebbe sapere cosa si intende per andare a faculo dal nostro paese…
Non sono muri, quelli che mi hanno folgorato stasera in stazione, ma container su un lungo treno merci sul binario accanto al mio.
Container di una serie che il suo autore ha chiamato quasi come questa mia rubrica irregolare, ma che -vista la tavolozza- si trasforma in una mostra viaggiante.
Ecco a voi due “filosofi su container”:
La cosa splendida di questa cosa qua -che per me è arte a tutti gli effetti- è che la scelta del medium su cui il graffittaro ha deciso di esprimersi rende ciascuna opera una specie di museo itinerante. I container girano su rotaia, arrivano a un porto, vengono imbarcati e girano tutto il mondo. Ho scoperto che ‘sto Jindu (che è partito come street artist del CollettivoFX di Reggio Emilia) è famoso, e se cercate in rete ci sono decine e decine di container fotografati qua e la.
Tutti con il loro filosofo sopra, numerati come le figurine dei calciatori.
Quando facevo il liceo, un secolo fa, la nostra insegnante di francese ci mise in contatto con una classe di nostri coetanei transalpini di Amiens, una citta’ che e’ nel nord della Francia, quasi in Belgio.
Lo scopo era quello di esercitare la lingua straniera per corrispondenza, scrivendo quelle robe su carta che si mettono nelle buste con francobolli, poi si spediscono e prima o poi arrivano a destinazione. Lettere, insomma, di quelle vecchio stile. Scritte a mano e rigorosamente in francese.
A me capito’ una ragazza (che solo la mia cavalleria mi impedisce di definire “bruttina”), e come succede quasi sempre in questi casi a un certo punto le due scuole organizzarono una settimana di scambio culturale, con visita nei rispettivi paesi e pernottamento nelle famiglie degli amici di penna.
Tocco’ prima a loro venire da noi, e dell’esperienza ricordo poco o nulla. Al momento di restituire la visita optai saggiamente per una settimana bianca, poi le lettere si interruppero e dell’amica di penna di quel tempo la’ non so piu’ nulla.
Tra le poche cose che ho ancora ben presenti di questa chiamiamola esperienza c’e’ il giorno che accompagnammo i francesi a Pisa. La gita si svolse tutta in Piazza dei Miracoli, direi tutta attorno alle bancarelle di ciarpame da turisti che all’epoca circondavano il prato del battistero e del duomo, e che oggi sono state spostate fuori dalle mura. I francesi sembravano attratti da quella paccottiglia come falene dalla luce dei lampioni, e si riempirono di qualsiasi oggetto potesse ricordar loro la gita in Toscana.
Tra i souvenir piu’ gettonati ovviamente le riproduzioni della torre pendente, credo nessuno se ne fece mancare una, con gioia dei venditori che quel giorno dettero fondo a tutte le loro scorte.
Un ragazzo pero’ se ne porto’ a casa una enorme, venduta dagli scaltri ambulanti come “lampada da arredo”. Sara’ stata alta almeno un metro, e il cavo era cosi’ lungo che facemmo tutto il viaggio in treno sganasciandoci dalle risate perche’ uno dei miei compagni aveva ipotizzato che nel prezzo -ingente- dell’oggetto fosse compreso anche un allaccio elettrico alla rete italiana.
Ci si divertiva con poco, i primi anni del liceo.
Ieri, sul solito treno che mi porta a casa dal lavoro sono salite alla stazione di San Rossore (quella accanto a Piazza dei Miracoli) mamma e figlia.
Francesi.
Anche loro avevano fatto shopping, e il risultato lo vedete qua sotto:
Non so se pure queste torri hanno il cavo transoceanico, ma m’e’ venuto in mente che aggeggi del genere (di quelle dimensioni, dico) in guisa di torre Eiffel o anche di Big Ben io in giro ne vedo pochi.
Deve essere una prerogativa dei francesi, volere la torre grossa: mi garberebbe vedere dove la mettono, nelle loro case, una roba cosi’ kitsch che io personalmente non userei nemmeno come fermaporta.
Ma i gusti son gusti, no? Per esempio, Brassens va benissimo per chiuderla qua.
Sali le scale che dal sottopasso ti indirizzano sul solito binario 4, dove tutte le mattine lavorative prendi il treno per Pisa, e fatto l’ultimo scalino con la coda dell’occhio t’accorgi di una macchia verde sul muretto.
Ti giri, e vedi questa composizione qua:
Il pupazzetto e’ malmesso, la mano sinistra quasi staccata dal braccio, l’espressione e’ smarrita e sembra quasi che Mr. Banner si scusi: “Guarda che non mi ci sono messo da solo qua, eh? E guarda che l’acqua tonica io non la bevo. Mai”.
Dopo essermi accertato che nessuno in giro stava reclamando Hulk, ho scattato.
Stamani omin action figure e bottiglietta non c’erano gia’ piu’.
UPDATE: Mi segnalano che… Il mostro verde fa parte dei cosiddetti “Tiramostri” e dovrebbe essere il Mostro di Frankenstein. Potevi allungargli le braccia e se gli schiacciavi la testa usciva il cervello.
Non di camoscio come quelle di Elvis, ma indiscutibilmente blu queste scarpe erano accuratamente allineate sul solito binario Ovest, stamattina:
Le scarpe sono una delle cose che si trovano piu’ spesso, in stazione. Se la giocano con le siringhe, e sono testimonianza di un’altra disperazione rispetto ai cilindretti di plastica con ago e stantuffo. O meglio: una volta forse era cosi’, oggi quasi sempre le due cose -la droga e il vagabondaggio- coincidono.
Chissa’ se domattina le ritrovero’ sulla banchina, allo stesso posto, tra l’indifferenza di tutti gli altri pendolari che corrono all’uscita per tuffarsi in un ennesimo giorno uguale a quello precedente. O se qualcuno (il proprietario, un altro barbone) se le sara’ prese -o riprese-. Vedremo, adesso musica: i Suede (cosi’ tutto torna) che cantano Trash (e tutto torna ancor di piu’).
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)