Archivi categoria: Musica

The good, the bad and the Queen, Lucca Summer Festival, 20 luglio 2019

Prendete il frontman dei Blur, quello che poi ha tirato su i Gorillaz e che sta dietro ai cartoni animati della band, oltre che a tutta la loro musica.

Aggiungeteci il chitarrista dei Verve, e  il bassista dei Clash.

Mettete alla batteria un settantanovenne che gli anni li compie il giorno dello sbarco sulla Luna, che ha suonato (e non solo suonato…) per anni con Fela Kuti.

Prima di attaccare l’amplificatore buttate nel mucchio un quartetto d’archi, un percussionista e un tizio al synth.

Potrebbe uscirne fuori un troiaio o un miracolo, e dal mio punto di vista è qualcosa di molto simile al secondo: sono The good, the bad and the Queen.

Il gruppo è qualcosa di difficilmente raccontabile a parole, purtroppo quella di Lucca è stata la loro unica data in Italia, ma se vi capitano a tiro in qualche angolo del mondo vi consiglio di mollare tutto e andarli a sentire.

Damon Albarn li ha tirati su a metà anni 2000, il loro disco di esordio era omonimo e raccontava la vita in Inghilterra negli anni ’90. Quelli dei Blur, appunto. Accanto a Albarn, alle chitarre c’era e c’è Simon Tong (Bitter sweet symphony l’avrete sentita, no?), Paul Simonon si occupa del basso come quando aveva accanto Joe Strummer, e l’ineffabile vecchietto Tony Allen sta dietro una batteria che domina il resto della scena.

Quattro ragazze danno corpo sinfonico alla musica dei ragazzacci, e quando non suonano usano gli archetti per guidare gli applausi della folla.

Il concerto è volato via in un’ora e mezza, in cui sono stati suonati pezzi dal primo e dal secondo disco, uscito a più di dieci anni dall’esordio. La scansione temporale definisce cosa e’ per Albarn “The good, the bad and the Queen”: un raffinatissimo hobby, dove le cose si fanno con calma finchè non riescono perfette.

Il disco del 2018 si chiama “Merrie Land”, e parla ancora una volta dell’Inghilterra, ma di quella attuale, quella in cui, a dirla con Damon dell’altro sabato: “our politics is fucked up, but also your politics is fucked up” (ovviamente rivolto al pubblico).

Vi faccio sentire come è iniziato e come è finito il concerto.

Il primo pezzo è quello che da il nome all’ultimo album. Suonato il 20 luglio, con l’allunaggio dell’Eagle proiettato prima sui maxischermi del concerto, perchè “you can fly to the Moon”, ci canta Damon. Eccovi Merrie Land:

L’ultimo è quello che chiude il primo disco, ed è un pezzo che dal vivo gli viene in maniera spettacolare. Questo concerto qua sotto vi da un’idea, ma sabato è stato molto, molto meglio, con Damon che incitava Allen a pestare più velocemente sui tamburi “Faster, Tony, faaaaster!”. Ecco The good, the bad and the Queen:

 

Si sono divertiti tutti, al concerto: gli spettatori ma anche i musicisti, spesso sorridenti e complici l’un l’altro come solo chi ama quello che sta facendo puo’ fare.

E come dar loro torto? Questa è gran musica.

 

Barney

The Cure, Firenze Rocks (16 giugno 2019)

Vale la pena partecipare a questi mega raduni musicali, in enormi arene trasformate in circhi equestri pieni di bancarelle e chioschi di sarcazzo cosa, in cui si deve comperare da mangiare e da bere usando i minibot i token, fottuti pezzi di plastica da 2 Euro l’uno, acquisto minimo 8 pezzi, non rimborsabili?

Vale la pena sorbirsi per un’ora e qualcosa i Sum41, band canadese di cui nessuno sentiva la necessità, che quando hanno attaccato una versione “punk” (ahahahahaha!) di “Another brick in the wall” ho avuto l’impulso di farmi i cinquecento metri che mi dividevano dal palco a balzi, solo per scaraventarli in pasto alla folla urlante?

Vale la pena, a 52 anni suonati?

Beh, si. Per quanto e soprattutto per come han suonato Robert Smith e compagni domenica sera, quasi due ore e mezza ininterrotte di tutto il loro quarantennale repertorio, decisamente si.

Il frontman ha sessant’anni ma non li dimostra, è lo stesso omone quasi immobile sul palco, capelli sparati in tutte le direzioni, che canta e ogni tanto tira fuori battute di un umorismo british da fare invidia ai Monthy Pyhton. La voce è quella di sempre, e quello di sempre è il basso potente e definito di Gallup. Alla chitarra c’è Gabrels, uno che suonava con Bowie -non esattamente Young Signorino, insomma-, alla batteria Jason Cooper che non sbaglia un colpo e che è il perfetto complemento al basso suonato col plettro di Gallup. O’Donnel completa la formazione con tastiere mai invadenti e imprescindibili nelle loro canzoni.

Dite una canzone dei Cure che conoscete, e l’hanno quasi certamente suonata: dalle scontate “Friday I’m in love” e “Boys don’t cry” dell’ultima parte, a “A forest” passando per “High”, “Lovesong”, “Pictures of you” e ovviamente questa splendida versione di “Just like Heaven”, ripresa da un benemerito sotto al palco con il suono quasi tutto dalle spie:

Il pubblico per una volta aveva un’età media vicina alla mia, anche se non mancavano giovani entusiasti.

La cosa più bella è stata vedere loro, i ventenni, a questo concerto. Uno dei commenti al video di “Just like heaven” qua sopra mi ha commosso:

Ho 17 anni e domenica sera c’ero anche io sotto il palco. Penso di aver capito per davvero il significato di “vera musica” ascoltandoli. Concerto che mi porterò nel cuore per sempre!

C’è speranza, in fondo: chi a 17 anni balla su “Friday I’m in love” non può votare a 18 i Serpeverde.

 

Barney

Virginiana Miller, “The unreal McCoy”, Santeria record, 2019

Doveva uscire forse un anno fa, poi a Natale 2018, infine a primavera.

E -puntuale come un regionale in ritardo…- a fine marzo finalmente abbiamo avuto il nuovo disco dei Virginiana Miller, band livornese sconosciuta ai più ma nel mio cuore da sempre. Per agganciarmi alla presentazione di “Middle England“, anche per questo disco all’inizio le “recensioni” erano in sostanza il copincolla del lancio della casa discografica e dei VM stessi, con qualche tocco di dotte citazioni di letterati americani (Roth in primis) a sottolineare la novità assoluta di questo CD: la lingua.

virginiana-miller-mccoy-cover-ufficiale-e1552669427261

“The unreal McCoy” è tutto in inglese. Ma siccome è un inglese scritto e cantato da un livornese che scrive canzoni splendide, i testi si capiscono e si apprezzano quasi quanto i classici del gruppo labronico.

Non starò a farla lunga su quello che ci sento io, in questo disco (non Roth: piuttosto un misto di McCarthy, DeLillo, Pynchon, Breat Easton Ellis per la letteratura, e sicuramente influenze Nick Cavesiane oltre che Neil Younghiane per la musica). Dico subito che l’operazione è perfettamente riuscita, e se i Virginiana volevano dare un’idea di come si vede l’America (intesa come Stati Uniti) dai Bagni Pancaldi, ci sono perfettamente riusciti. Anche perchè spesso i critici musicali si dimenticano che chi vive sulla costa toscana nord un contatto diretto con gli USA ce l’ha (prima molto di più, adesso un po’ meno) attraverso la base NATO di Camp Darby.

Il disco si apre con la title track (“the unreal McCoy” in americano è qualcosa tipo l’opposto di qualcosa di vero e definito, direi improbabile più che incredibile), un vecchio perdente che chiede al figlio se poi ha sbagliato qualcosa a voler fare di nuovo grande l’America (vi ricorda qualcuno?).

La seconda traccia è un pugno nello stomaco, un mix di culto delle armi (il secondo emendamento tanto caro agli sparafucile d’oltreoceano) e uccisione di donne in stile “American Psycho” o Charles Manson, rappresentato benissimo dal video che accompagna il pezzo che a sentirlo sembra innocuo:

La chiusura è bellissima: “…this is just a dream, this is an M16. This is heaven, this is an AK47. You won’t bleed for long, this is only a second amendment to a love song”.

Un altro pezzo che mi piace moltissimo e’ “The end of innocence”, che racconta gli USA della guerra fredda, dei rifugi antiatomici e delle mille contraddizioni. E mi piace molto anche il lento e tranquillo “Soldiers on leave”, dove pare d’essere proprio di fuori a Camp Darby a guardare i marines in libera uscita.

E “Toast the asteroid”, che davvero ci vorrebbe l’asteroide cui fare un brindisi, fino alla chiusura con una “Albuquerque” in cui io e l’omino del mio cervello sentiamo parecchio Nick Cave.

Non vedo l’ora di andare a sentirli dal vivo, i Virginiana Miller.

Bentornati, c’è sempre speranza.

Barney

Josh T. Pearson, Livorno (1 dicembre 2018)

Il migliore commento che posso fare alla tragedia di Corinaldo di venerdì scorso è raccontare il concerto di Josh T. Pearson che ho visto e sentito sabato 1 dicembre, al Cage.

E’ stridente la contrapposizione tra un DJ set di un trapper nostrano e la performance dell’ex frontman dei Lift to Experience, che si presenta sul palco nudo del suo gruppo (che ha peraltro fatto un disco solo ma mostruoso), della sua barba da profeta e dei capelli alla Gesù Cristo, con un improbabile cappellino da pensionato della Florida e una Fender come unico strumento di lavoro.

Così come è stridente il confronto dei numeri, nudi anch’essi di fronte ai biglietti staccati per i due eventi: 600 o 1400 per Sfera Ebbasta che lancia una playlist, a malapena 30 (trenta, avete letto bene) per Josh che suona e canta con la sua voce da angelo del folk rock con io e i pochi over 40 presenti radunati a un metro da lui. Eccolo in uno scatto di Sebastiano Bongi, senza il cappellino:

jtp2018

L’ultimo disco del texano (che poi e’ il secondo di una carriera da schivo genio della musica) si intitola “Straight Hits!”, e sembra un nuovo inizio rispetto al favoloso “The Texas-Jerusalem Crossroads” di quasi vent’anni fa, unica opera dei Lift to Experience, ma pure rispetto al primo disco solista “Last of the Country Gentlemen”, di una decina d’anni fa. Sembra più diretto come dice il titolo, ma in realtà racchiude direi trent’anni di musica rock: dal folk all’indie allo shoegaze al blues, al country ovviamente. C’è di tutto, suonato bene e cantato da una voce che ha una espressività, una estensione e una potenza che chi è abituato ai talent del menga non potrà apprezzare, ma vale da sola il prezzo del biglietto. Come calore e intensità ricorda Jeff Buckley, ma continuate a guardare X-Factor, continuate…

Il concerto si è subito trasformato in un colloquio tra il cantante e i pochi fortunati presenti, con scaletta più o meno improvvisata e digressioni sui tempi che furono: “L’ultima volta che sono venuto in Italia c’era Berlusconi, come Presidente. Ora chi avete? Conti? And whattafuck is Conti? Ah, Conte. And whattafuck is Conte?”, un racconto della sua vita e uno sguardo triste e malinconico al passato che fu e che non tornerà.

Ecco: se capita (e per quest’anno non capiterà più) andate a sentire Josh, poi continuate a guardare i talent show sperando che esca fuori gente come lui. Tanto non succederà: la vita di plastica di The Voice o di Amici non forgia genii come invece fa il mondo vero, quello fuori dalla TV e dal bisogno di pagare un biglietto non per sentire cantare Sfera Ebbasta, ma per vederlo cambiare dei dischi.

Questo è Josh in versione Messia, 2011, canzone a tema:

 

 

Barney

Giorgio Canali e Rossofuoco, Livorno, 3/11/2018

Se cercate qua dentro trovate almeno altre tre racconti di concerti di Canali, e sicuramente di quelli cui io ho assistito ne manca qualcuno.

Non vi starò quindi a ridire per la millesima volta di andare a vederli dal vivo, i quattro residuati d’una musica che fu, né mi metterò ancora a glorificare Greco al basso, Dalcol alla seconda chitarra che a volte diventa la prima, e Martelli a pestare sulla batteria come se non ci fosse un domani. Ma il senso rimane quello: invece di ascoltare X Factor, o di scannarvi come è successo anche oggi per un biglietto di Vasco Bossi (il cantante dai capelli grassi, come cantavano i geniali Squallor) che costa un rene e vi da in cambio della roba incellofanata da grande distribuzione organizzata… muovete il culo, cercatevi le prossime tappe e andate fiduciosi ad assistere ad un concerto che quest’anno porta in giro il nuovo album di Canali: “Undici canzoni di merda con la pioggia dentro”.

Già il titolo vale il biglietto e il CD, l’ascolto vi precipiterà in una cupa atmosfera decadente, descritta con le parole crude e dirette di Canali: l’oggi, qua, in Italia. L’aggiunta della pioggia alla merda rende tutto coerente e chiaro: se poteva andar peggio, è andato anche a piovere.

Le undici tracce si aprono con “Radioattività”, una marcia militare in crescendo che da subito il tono al resto dei pezzi: attualità e amarezza, donne che non ci sono più e anarchia politica.

E nuvole, e pioggia.

“Messaggi a nessuno” è una canzone d’amore, finito ma sempre presente. “Piove, finalmente piove” è falsamente gioiosa: il ritmo porta a ballare, le parole graffiano e sono un racconto dell’Italia degli ultimi tre o quattro anni, in tre minuti e venti.

Poi c’è “Estaate”, che non è scritto male, è così, una ballata romantica, e poi due grandi brani rock, di quelli che non occorre la tastiera effettata o il sax, va tutto benissimo così: “Emilia parallela” (che chiaramente fa il verso ad Emilia paranoica dei CCCP), che suona così:

e che se la sentite dal vivo è un muro sonico fantastico con parole nel testo che vasco Bossi gli fa una sega, al Canali…

E “Mille, non più di mille”, un pezzo ruffiano, facile facile e di sicuro effetto che fa il paio con quello di prima:

E “Fuochi supplementari”, e “Danza dell’acqua e del fuoco” e altro, tutto in un disco che era un po’ non ne ascoltavo di così veramente belli. A mio insindacabile giudizio il miglior prodotto musicale italiano di quesrto 2018 Serpeverde.

Una menzione finale per Mattia Prevosti, giovane che ha aperto il concerto con un mini set di cinque canzoni, le ultime due suonate assieme a Canali e Dalcol. L’ultima è stata questa cover di “Shelter from the storm” tradotta neanche male:

 

Barney

Sheena is a punk rocker

Nell’ultima settimana mi è capitato due volte di trovarmi di fronte il punk (inteso come musica) declinato in salsa bimbominkia.

La prima su facebook, dove su chissà quale gruppo cui chissà perché sono iscritto un tizio, uno studente che prepara la tesi, invitava i membri a riempire un semplice questionario online. Era sulle preferenze musicali, ma alla fine al tizio interessavano due cose: se ti piacevano i Green Day, e se ti piacevano alcuni altri “artisti punk”.

Tra le scelte, oltre ai Green Day e ai Blink 182 (questi ultimi secondo la vulgata corrente avrebbero scritto “Behind blue eyes”, il pezzo dei Who del ’71…) c’era roba come Avril Lavigne, i Fall Out Boy e i My Chemical Romance, e a quel punto ho fatto notare che non si poteva proprio vedere una robaccia così, e non ho riempito nulla.

Ieri invece al lavoro il collega DJ mi ferma per il corridoio e mi dice che ha bisogno di una consulenza musicale sui Green Day (aridaje…). La consulenza e’ dire il nome di una canzone su youtube che non ha il titolo. Me la fa sentire e invece che i Green Day sono i Blink 182 col loro pezzo più famoso, “All the small things”. Appurato questo, si viene a sapere che ha bisogno di alcuni pezzi punk per suonarli ad un matrimonio, dove gli è perlappunto stato chiesto un po’ di punk, tipo (cito il messaggio che gli han mandato) “…Green Day …Blink 182”.

Io gli ho tirato giù cinque o sei pezzi facili che non credo suonerà mai a quel matrimonio, ma il punto è che oramai “punk” significa una cosa completamente diversa da quella di trenta o quaranta anni fa, sia musicalmente che socialmente. Una cosa che a me fa schifo quanto immagino faccia schifo ad uno che ascolta musica classica sentirsi mettere Giovanni Allevi tra Bach e Dvorjak.

Quello che oggi si chiama punk è una batteria veloce e martellante fine a se stessa più che al pezzo suonato, una linea di basso che quasi non si sente e sopra tutto una chitarra ipereffettata che anestetizza tutto. Cambi di ritmo sincopati, voce dissonante e parlata, abbigliamento alla skateboardista… insomma, tutte le piccole cose che piacciono ai gGiovani d’oggi:

Il punk di ieri erano i Dead Kennedys e Jello Biafra, i Ramones della Sheena che da il titolo al pezzo, i Clash (che resero la vecchia “I fought the law” un capolavoro e che se la fanno i Green Day è obiettivamente sette livelli sotto), i Sex Pistols, e anche questi tizi qua sotto che qualche anno fa, imbolsiti dall’età ma sempre uguali a quarant’anni prima mi sedevano accanto a bersi una pinta prima del loro concerto:

Io non ho niente contro i Blink 182 o i Green Day, ma per favore non si dica che fanno punk rock.

“Pop punk” può andare, anche se mi sa tanto di culo e quaranta ore…

 

Barney

Il concerto fine-di-mondo

Eh, una vittoria della liberta’ contro il terrorismo.

Mavaffanculo, va’, parliamo di musica seria, che il titolo acchiappa click ha gia’ svolto la sua funzione.

Questo pezzo lo conoscono tutti (nel senso chel’han sentito tutti almeno una volta), ma in pochi conoscono chi lo canta. E in meno ancora sanno che e’ una canzone folk di origini incerte, con mille interpretazioni di cosa sia la “Black Betty” del titolo: un fucile col calcio di legno, una bottiglia di whisky, una frusta, il cellulare che porta i galeotti in prigione…

Il pezzo e’ Black Betty che in genere si ascolta in questa versione degli sconosciutissimi Ram Jam, gruppo merregano degli anni ’70 che di dischi ne ha fatti credo due:

La storia piu’ accreditata del pezzo e del suo significato ve la potete leggere su Wikipedia, pero’ la cosa e’ discussa parecchio, alcuni la considerano un brano folkloristico inglese del 1600.

Non sara’ in diretta su Rai Uno, non avra’ venduto 220.000 biglietti, non sara’ un pezzo sull’amMore, o sulla pace che vince l’odio e l’indifferenza, ma preferisco i Ram Jam a Vasco, se non s’era ancora capito.

 

Barney

Il cuore della trota

Spesso quando lavoro e ho bisogno di non essere disturbato troppo mi pianto le cuffie nelle recchie e faccio partire un po’ di musica a basso volume. La cosa funziona, sia perche’ la musica la scelgo io, sia perche’ i colleghi che passano e mi vedono con le cuffie credono sia impegnato in una delle venti teleconferenze della giornata.

Stamani per leggermi un documento in pace ho messo le cuffie e fatto partire “Theatre is evil”. Di Amanda Palmer e la Grand Theft Orchestra. Che contiene pezzi notevoli, come la gia’ stracitata “The bed song”, o “Smile”, o “The killing type”. Nel mezzo al disco c’e’ un brano splendido, che e’ un pezzo di vita di Amanda raccontato con una voce che ammazza. E’ quello che da il titolo al post (“Trout heart replica”), e prima di farvelo sentire rubo le parole all’artista che cosi’ racconta come e’ nata la canzone.

the story behind the song: i wrote “trout” during a very hard time, when i was transitioning between my last relationship, and my relationship with neil.

it was the winter of 2008, i was on the road in support of “who killed amanda palmer”, and my whole touring party was at neil’s house.

neil and i had never been intimate, but we were looking at each other.

hi.

hi.

neil took zoë keating and i to a trout farm to pick up fresh trout for dinner. the man at the farm clubbed the 12 trout dead with a club and i – being a vegetarian who eats fish but has an impossible time watching an animal suffer – forced myself to watch. we went into the little room where he guts and prepares the fish, and he started cutting and gutting them all open for us. he tuned to us and one point with something in his hand and said “look.” it was a beating little heart, dark purple, the size of a dime. it kept beating, and beating. for a minute, or longer. “the kids love this,” he said. i looked at that heart and saw my own.

that’s what wrote the song.

Neil e’ Neil Gaiman, anzi, Neil “Sandman” Gaiman, uno degli scrittori piu’ eclettici dell’Inghilterra moderna.

A prima vista la storia sembra orribile, senza senso, contraddittoria con il fatto che Amanda si dichiara vegetariana (ma mangia il pesce). Il fatto e’ che dietro le dodici trote ammazzate per la loro cena e subito sventrate per essere pronte per la griglia c’e’ il piccolo cuore pulsante del pesce, e dentro quel cuore c’e’ un mondo che sta nascendo proprio quando lui smette di battere.

I due ovviamente si sposeranno di li’ a poco, e come fai a non sposare una che scrive quasi appositamente per te una canzone che finisce cosi’:

and killing things is not so hard
it’s hurting that’s the hardest part
and when the wizard gets to me
i’m asking for a smaller heart
and if he tells me “no”
i’ll hold my breath until i hit the floor
eventually i’m know i’m doomed
to get what i am asking for…

…now my heart is exactly the size
of a six-sided die cut in half
made of ruby red stained glass

can i knock you unconscious as long as i promise
i’ll love you and i’ll make you laugh?
now my heart is exactly the size
of a six-sided die cut in half
made of ruby red stained glass
can i knock you unconscious as long as i promise
i’ll love you and i’ll make you laugh?

Prima di ascoltare “Trout heart replica” segnalo che anche Gaiman non stette con le mani in mano, e per rispondere alla sua futura sposa tiro’ fuori questa poesia qua, illustrata da Jouni Koponen.

 

 

 

Barney

Tre accordi

E’ che l’ho risentita ieri, e in tempi di post-Festival non posso non farla riascoltare.

Tre accordi, appunto. Sotto, la storia di un ragazzo disperato che vive in una sporca stanza col padre che lo picchia perche’ s’e’ stancato di chiedere l’elemosina.

E’ New York, ma non Wall Street.

E’ il Dirty Boulevard di Lou Reed dove Pedro, alla fine, trovato un libro nella spazzatura, spera di poter sparire se conta fino a tre.

Vola via solo perche’ legge.

Quando finira’ il sogno, trovera’ il solito sporco viale di sempre, con i soliti tre accordi e il padre che lo mena.

 

Barney

Marinai giamaicani, ovvero: come nasce un mito del R’n’R

Nel 1955 Richard Berry scrive ed incide un pezzo a meta’ tra R’n’B e salsa che nessuno o quasi si fila.

Parla di un marinaio giamaicano che torna a casa dalla sua bella, e di storie cosi’ se ne son sentite millanta. E’ quindi comprensibile che il brano vendette in 4 anni 40.000 copie e stop, tra l’altro come lato B di un 45 giri.

Berry vende i diritti del brano per 750 dollari, nel 1959. Gia’ nel 1960 c’e’ una cover “ufficiale”, di un certo Rockin’ Robin Roberts, con il ritmo gia’ piu’ tirato rispetto all’originale e melensa ballata caraibica. Nel 1963 incide la sua versione anche Paul Revere con i Raiders. E nello stesso anno un altro gruppo fara’ la cover definitiva del brano, quella che adesso esiste in piu’ di 1500 (millecinquecento, esatto) versioni cantate anche dal maiale.

Sono i Kingsmen, una band di Portland che sceglie quel brano per la sua seconda prova su vinile. Sempre 45 giri, ovviamente.

La sera dell’incisione probabilmente il cantante-chitarrista ci aveva dato dentro secco con l’alcool (e magari anche con le canne), e quel che viene fuori e’ un rock and roll sporco e ipnotico. Le parole poi sono del tutto incomprensibili, sembra piu’ un gatto che miagola piuttosto che un cantante. Non stiamo parlando dei Rolling Stones, i soldi son pochi e quella sara’ comunque l’unica registrazione della serata; da li’ uscira’ il disco.

L’FBI viene in possesso della registrazione e -siamo nel 1963…- vuole vederci chiaro in quel miagolio: potrebbero esserci nascosti inni satanici, inviti al sesso di gruppo, all’omosessualita’, a chissa’ cos’altro. In 31 mesi (trentuno, si’) di indagini, pero’, non riescono a capirci un cazzo e alla fine devono mollare.

Nel frattempo il disco esce, all’inizio non se lo caga nessuno (vende 600 copie) ma poi, grazie all’interessamento dei federali e al passaggio radiofonico nella trasmissione “The Worst Record of the Week” (non c’e’ bisogno di traduzione, credo…) diventa una hit clamorosa. In tempo per vedere sciogliersi i Kingsmen, ovviamente.

Il brano lo avrete sentito tutti, nella loro -intendo i Kingsmen- versione. E’ “Louie Louie“, e questa storia che sembra incredibile e’ anche su wikipedia. Ma sicuramente avrete sentito anche qualche altro cantarla, tra i 1500 che l’han fatto dal 1963 ad oggi.

Eccovela, cosi’ come la registrarono quella sera del 1963:

 

Barney