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Recensioni di libri

Dieci libri in una botta sola, con spoiler e senza catene

Ogni tanto vedo pubblicate su Facebook robe tipo “I dieci film più belli che ho visto“, o “le dieci canzoni punk più importanti per la mia adolescenza“, o sarcazzo quali altre perle di vita centellinate una a una per dieci giorni, con l’aggravante che quasi sempre questa roba è accompagnata da un “taggo Caio, che faccia la stessa cosa con dieci suoi contatti”, in un vortice assurdo e per me incomprensibile di gente che racconta ad altra gente robe di cui alla fine non interessa una mazza a nessuno, se non a chi gestisce il social network e deve tenerlo in vita in qualunque modo. Incluso questo, perlappunto.

Tra le robe che mi son passate sotto gli occhi c’è stata anche “pubblica i dieci libri che ti hanno colpito di più, mettendo solo la copertina e taggando un amico al giorno”.

Cioè: invece di chiedere al coglione di turno di dire perché il libro x l’ha colpito, gli si dice che basta la copertina, senza commenti. Il che non ha bisogno di commenti, in effetti.

Odio le catene di Sant’Antonio, insomma.
Tutte, nessuna esclusa.

Per cui, invece che perpetrare il delitto del “pubblica la copertina dei dieci libri che più ti hanno colpito, e dai il compito ad un amico diverso ogni giorno” la risolvo da solo, senza pubblicare le copertine e soprattutto non tirando in ballo nessun altro.

Anche perché leggere è un’attività che in genere si fa da soli.

Non c’è un ordine di merito, né questi sono i libri che più mi hanno colpito (qualsiasi cosa ciò significhi), per ogni libro ci sono poche parole di presentazione -tanto la gGente non legge più nulla…- e (attenzione!) uno spoilerone di ancor meno parole.

  • La versione di Barney” di Mordecai Richler (dovrò giustificare il nickname, no?). La storia di un vecchio e burbero produttore televisivo attraverso le sue tre mogli e la misteriosa scomparsa del suo migliore amico.
    SPOILER: Ha E’ stato il Canadair.

 

  • Ubik“, di P. K. Dick. Nel futuro i morti sono tenuti in uno stato di semicoscienza, e possono interagire con i vivi attraverso macchine elettroniche, per pochi minuti ogni tanto.
    SPOILER: Sono tutti morti, anche chi crede di essere vivo.

 

  • Postwar” di Tony Judt. La storia dell’Europa dal 1945 a pochi anni fa, raccontata da un grande giornalista.
    SPOILER: è purtroppo tutto vero, e chi dovrebbe leggerlo non lo farà.

 

  • Watchmen“, di Alan Moore e David Gibbons. In un presente distopico un manipolo di vecchi giustizieri oramai sull’orlo della pensione si trova a combattere contro un misterioso nemico che sembra avercela con loro.
    SPOILER: Silk Spectre è figlia del Comico.

 

  • Meridiano di sangue“, di Cormac McCarthy. La parabola distruttiva di un giovane di frontiera, in bilico tra la vita e la morte nel profondo sud degli USA di cent’anni fa.
    SPOILER: muore.

 

  • Bone” di Alan Smith. E’ simile al Signore degli Anelli, ma il drago è buono e gli animali parlano.
    SPOILER: tornano a Boneville.

 

  • 1984“, di George Orwell. Chi non l’ha letto lo conosce perché guarda “Il Grande Fratello”, che è una delle presenze costanti del libro. Ma non c’entra una mazza con il reality show, fidatevi.
    SPOILER: Winston Smith perde. Male.

 

  • L’alba della notte“, di Peter F. Hamilton. Le anime dei morti trovano il modo di possedere i vivi, che si devono difendere sapendo che se muoiono passano dalla parte del nemico, che è sostanzialmente immune al 90% delle armi dei vivi.
    SPOILER: Vincono i vivi per un pelo, ma dopo circa 4000 pagine.

 

  • L’ombra dello scorpione” di Stephen King. Racconta meglio di “It” la lotta tra bene e male, in uno scenario postapocalittico purtroppo abbastanza probabile.
    SPOLIER: vincono i buoni ai tempi supplementari col golden goal. Dopo circa 1200 pagine.

 

  • Armi, acciaio e malattie“, di Jared Diamond. Una storia dell’evoluzione della civiltà umana che spiega perché siamo come siamo, e come possiamo distruggere l’unico pianeta che al momento abitiamo.
    SPOILER: anche qua, è tutto vero.

 

 

Barney

Barney

“Middle England, Jonathan Coe (Feltrinelli, 2018)

In questi giorni mi sono accorto che le recensioni che si trovano sui siti “ufficiali” sono tutte uguali, e se va bene si limitano alla quarta di copertina (se si tratta di un libro), o al copincolla del comunicato stampa della casa discografica (se è di musica che stiamo parlando). Dubito che qualcuno legga veramente il libro, o ascolti il disco.

“Middle England”, di Jonathan Coe, non fa eccezione.

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Il libro è scritto benissimo, come tutti i libri di Coe (qua, qua e qua altre mie impressioni su parte di quel che ho letto della sua produzione), è divertente e -di nuovo- come capita sovente con lo scrittore inglese racconta in modo eccezionale un periodo storico recente dell’Inghilterra: in “Middle England” (e l’assonanza con la Tolkieniana “Terra di Mezzo” è assolutamente cercata) la storia si dipana tra il 2010 e il 2018, e ci fa capire meglio di molti saggi e articolesse di giornalai italiani da cosa si è partiti e dove si è arrivati per quel che riguarda la Brexit.

I personaggi principali sono quelli de “La banda dei brocchi” e “Circolo chiuso”: Benjamin e Lois Trotter, oramai sulla sessantina come i vecchi compagni di scuola, e le loro famiglie. Benjamin continua a cercare di scrivere un libro-summa della sua vita, accompagnato da ore e ore di brani da lui composti, Lois è sull’orlo della separazione e sua figlia troverà per caso l’uomo della sua vita -forse…- grazie ad una multa per eccesso di velocità (??!!!).

Attorno ai Trotter e quasi voce narrante della cronaca politica di questi otto anni c’è Doug, giornalista in eterno contrasto con la moglie ricchissima e la figlia che odia entrambi i genitori. I suoi incontri sempre allo stesso pub con il vice-vice addetto stampa di Cameron sono tra i punti migliori del libro. Ed è incredibile come certi avvenimenti pre-e post Brexit (o Brixit, come erano convinti si chiamasse Cameron e la sua squadra) siano passati in cavalleria nella mia memoria, e scommetto in quella di molti altri. A partire dall’omicidio di Jo Cox, parlamentare assassinata perchè schierata con i Remainers nel 2016 al grido “Britain first” (vi ricorda qualcosa?). E’ altrettanto incredibile leggere che le motivazioni di chi ha votato l’uscita fossero del tutto identiche a quelle di un qualsiasi sovranista della Val Brembana, avendo esattamente la stessa inconsistenza logica.

Leggetelo, questo libro. Leggete Coe, anche in inglese, che davvero scrive come pochi oggi come oggi, e che oltre a scrivere bene racconta la Storia con la maiuscola.

E leggete pure questo bel pezzo su Phastidio di oggi, che di Brexit parla, e che si chiude con il mio mantra da una decina di anni a questa parte: il populismo propone “soluzioni” semplici a problemi complessi.

Le virgolette sono volute.

 

Barney

“La storia di Mortimer Griffin”, Mordecai Richler, 1968 (Adelphi, 2015)

Come in molti hanno già scritto, Richler è stato per la letteratura quello che Woody Allen è ancora per il cinema: l’archetipo del brillante artista ebreo. La grossa differenza e’ che i libri di Mordecai (ma i libri in generale, purtroppo…) li leggono in pochi, mentre i film di Woody Allen fa sempre fighissimo (stavo per scrivere “radical chic”, immaginate un po’) andarli a vedere al cinema, perche’ si deve andarci.

Certo, qualcuno avrà letto “La versione di Barney” (e toh, questo blog è in effetti dedicato a quel libro), ma il canadese ha scritto anche molti altri gran libri, come questo ad esempio, di non semplice collocazione né lettura.

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Sulla copertina c’è lui da giovane, ma potrebbe essere anche il protagonista della storia che scorre nelle pagine interne, magari la penultima.

La storia: difficilmente riassumibile in poche righe. C’è chi classifica questo libro come distopico, chi lo considera un feroce satira della borghesia di origine ebraica di quegli anni, chi lo bolla come un osceno tentativo di sputtanare la Londra degli anni ’60 (per questo in molti paesi anglosassoni fu censurato, alla sua uscita), chi un piccolo scherzo innocuo e senza senso di un colto letterato.

Io direi che è un inincasellabile frullato di Bukowski, del PK Dick di “Do androids dream of electric sheep” (Blade Runner, via), dei “tre uomini” di Jerome K. Jerome, con uno dei personaggi principali che a me ha ricordato immediatamente Jabba the Hutt di Star Wars, e tantissimo altro.

Un casino insomma, tra l’altro costruito in modo da lasciare inspiegati per molte pagine episodi fondamentali. Il che non attira il lettore medio di questi tempi, aduso a masticare trilogie sulle sfumature di grigio in cui sai già che lui la frusta ma a lei je piace così, le banalità di Fabio Volo, i nomi del cazzo di Moccia dentro le storie del cazzo di Moccia, o se va bene l’ultimo giallo d’un giallista a caso.

Ci si deve sforzare di seguire un filo che pare non esserci, ma che alla fine porterà ad un finale che vi lascerà con almeno un dubbio. Dico almeno uno perché non so in quanti, nell’ultima pagina, andranno con la memoria alla scena finale del sopra citato Blade Runner in versione cinematografica. Io l’ho rivissuta quasi dalle pagine uscissero Deckard e Rachael, e non vi preoccupate: non vi sto anticipando nulla.

Forse non è un caso che entrambi i romanzi sono stati pubblicati nel 1968… Sarebbe bello poter chiedere a Richler e a Dick se si conoscevano, e come hanno potuto tirare fuori romanzi così diversi ma con così tanti particolari simili nello stesso anno.

Ma non vi preoccupate: “La storia di Mortimer Griffin” non è fantascienza. Non è nulla di già visto, è qualcosa che non può non divertire e intrigare allo stesso tempo; le situazioni grottesche e paradossali alla fine le si accetta come plausibili e funzionali allo sfondo, necessarie anche se esagerate. Tutta la storia della scuola del figlio dodicenne di Griffin, ad esempio, è esilarante, così come il malinteso con l’amico Hy -ebreo- che per una innocua battuta si convince che Mortimer sia antisemita. O la pertinacia con la quale lo stesso Mortimer nega qualsiasi sua discendenza ebrea, pur essendo lui circonciso (“Ma per motivi sanitari!”).

Un fuoco d’artificio continuo, che lega il lettore alla pagina e lo intriga fino ad un finale che ciascuno può completare come meglio crede.

Che poi è la magia dei libri, no?

 

Barney

“In esilio”, Simone Lenzi (Rizzoli, 2018)

Pochi libri riescono a ritrarre la realtà dei nostri giorni in una manciata di pagine che corrono via veloci come se la storia che vi si racconta fosse più una canzone che un romanzo.

“In esilio” è una di queste perle rare, e già dal sottotitolo attira il lettore: “Se non ti ci mandano, vacci da solo”.

inesilioD’altra parte scrivere canzoni è il mestiere  di Lenzi, cantante dei livornesi Virginiana Miller e autore dei testi del gruppo. Gruppo di cui per inciso aspettiamo da un anno il nuovo disco, dato “in uscita” da mesi e chissà quando poi davvero arriverà.

L’inizio è una dichiarazione: questa non è una storia, perché le storie adesso le racconta la tv con i miliardi di masterchef, meccanici geniali, pasticcieri, nani che si sposano tra loro, uomini di trecento chili che dimagriscono in tre settimane, chirurgie estreme e via così.

Il libro è la cronaca di una fine, perché tutti -come dice Lenzi- facciamo una fine, e sarebbe importante avere coscienza di quale a noi è destinata.

Tra i vari finali raccontati balza agli occhi di tutti quella di un partito democratico in disfacimento -in rottura prolungata si direbbe all’ippodromo-, oramai autoreferenziale nella sua ricerca del biodinamico, dell’equoesolidale, del raffinato a chilometro zero. E parallela a questo disfacimento l’ascesa del “partito dei resti sbagliati”, i grillini, quelli che trovano la loro raison d’etre nel contestare una cosa a caso con la certezza che loro saprebbero farla meglio, sia essa un intervento di microchirurgia cerebrale o l’atterraggio di un Airbus 380.

La politica permea tutto il libro, ma sotto c’è anche la storia del protagonista-scrittore, che sembra iniziare da dove finisce “Sul lungomai di Livorno“, e ha nel cane di Simone Lenzi uno dei personaggi ricorrenti, cane anche lui raccontato assieme al padrone in uno dei brani più belli di “Venga il regno” (lo trovate al link sopra).

Lettura veloce ma intensa, un disincantato arrendersi al passare degli anni e all’aumento esponenziale del tasso di stupidità della popolazione mondiale, “In esilio” è quasi un manuale di sopravvivenza Ghandiana per questi tempi oscuri ma fortunatamente non seri.

Leggetelo, non vi farà più male dell’ennesima puntata di “X-Factor”…

 

Barney

 

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°2: Spiegelmann e Meyssan

Paralleli divergenti in questo caso, tra un fumetto serissimo nella sua opera di documentazione d’un dramma raccontato in presa diretta, e un romanzo-inchiesta a teorema, che vorrebbe dimostrare la falsità e l’inconsistenza della versione ufficiale dello stesso dramma.
L’episodio preso in esame è famosissimo: l’attacco all’America dell’11 settembre 2001, e ci viene raccontato attraverso il World Trade Center caduto a New York, disegnato qualche settimana dopo da Art Spiegelmann ne “L’ombra delle Torri“, e l’aereo caduto sul Pentagono pochi minuti dopo l’attacco a New York, che secondo il Therry Meyssan di “L’incredibile menzogna” non e’ mai esistito.

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I punti di vista opposti nascono da esperienze nemmeno lontanamente comparabili tra di loro: Spiegelmann che vive da sempre a New York, e che ci racconta l’ansia di sapere la figlia proprio nella zona dell’attacco, al suo terzo giorno di scuola, la corsa pazza e senza fiato alla ricerca di informazioni, l’orrore in successione dei crolli delle due Torri, l’odore nauseante delle settimane successive che ricorda quello che suo padre gli ha raccontato dei camini di Auschwitz… e Meyssan, che costruisce tutto il suo libro su assunti e prese di posizione del tutto arbitrarie, e lo fa “osservando” foto e filmati dalla Francia, senza nemmeno aver visto da vicino i luoghi di cui millanta di sapere tutto, che ci racconta di bugie e coincidenze incredibili, che discetta di ingegneria e tecnologie aeronautiche non avendo una base nemmen minima per farlo.

Io – ve lo dico subito – sto con Spiegelmann; ma i due libri leggeteli entrambi, perche’ solo il fatto che si possano esprimere idee cosi’ diverse su un episodio che tutti abbiamo vissuto e’ stupefacente e meraviglioso allo stesso tempo.

Art Spiegelmann “L’ombra delle Torri”, Einaudi 2004
Thierry Meyssan “L’incredibile menzogna”, Fandango Libri 2002

 

Barney

“New York 2140”, Kim Stanley Robinson (Orbit, 2017)

Un futuro non così lontano né troppo improbabile, quello raccontato da Robinson nel suo ultimo romanzo.

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L’ambientazione è tutta nella copertina del libro: siamo a New York, e ovviamente l’anno è il 2140 o giù di lì. La città, come tutte le città costiere, è stata inondata da due successivi cataclismi climatici che hanno sciolto quasi tutti i ghiacci del Polo Nord. Il livello del mare si è alzato di 15 metri, e la parte bassa della città è adesso una “super-Venezia”, i vaporetti hanno preso il posto dei taxi e i grattacieli svettano come palafitte collegate da ponteggi tibetani a centinaia di metri dall’acqua. Al posto degli aerei, dirigibili e città-pallone solcano i cieli. Il disastro è l’effetto di uno sconsiderato sfruttamento delle risorse naturali da parte dell’uomo, che dalla seconda inondazione globale ha imparato ad inquinare di meno (forse).

In questo scenario postapocalittico si intrecciano le storie di alcuni personaggi che hanno in comune il luogo dove abitano: il Metropolitan Life Insurance Company Tower. La storia è però un pretesto per un j’accuse pessimista dello stile di vita dell’uomo di oggi, e per una critica serrata al turbocapitalismo che da vent’anni produce ricchezza per pochissimi sulle spalle della maggioranza della popolazione. Si direbbe “un romanzo comunista”, a voler essere leghisti (e ipotizzando che il leghista medio legga più di un libro nella sua vita…), ma il punto di vista di Robinson a me pare assolutamente corretto, così come corrette sono le spiegazioni di economia e finanza che supportano il plot.

Il libro è diviso in capitoli dedicati ai vari personaggi, intermezzati da una specie di voce narrante, un cittadino qualunque senza nome che ha la sola funzione di raccontarci come siamo arrivati sin lì e di legare i vari episodi.

Un buon romanzo, senza dubbio, che lascia nel lettore il dubbio -fondato- che quel che ha letto possa davvero un giorno verificarsi.

 

Barney

La realtà che supera la fantas(c)i(enz)a

Leggo parecchio, e come qualcuno può aver notato leggo soprattutto fantascienza. Oggi, in pausa pranzo, mi sono trovato come sempre a leggere, e come succede spesso leggevo fantascienza.

Il libro -di cui forse parlerò quando lo finisco- è “New York 2140”, per la cronaca. Ma adesso è un particolare irrilevante.

Un collega mi chiede cosa leggo, e poi commenta che a lui la fantascienza non piace perché da una visione del futuro spesso angosciante ed eticamente discutibile.

Io ribatto che invece il bello della fantascienza è che ti apre il cervello al pensiero laterale, e comunque spesso la realtà attuale supera la fantascienza di soli dieci anni fa.

Un po’ come è successo per la satira al tempo di Berlusconi: superata a destra dagli eventi di tutti i giorni, il genere è andato in declino per anni, ripigliandosi solo da Renzi in poi.

Finito di pranzare, e in attesa che la teleconferenza interrotta all’una e mezza riprendesse (si sarebbe poi protratta fino alle cinque, per la cronaca…) mi metto a leggere notizie in rete, e mi capita sott’occhio di nuovo slashdot, con questa news qua.

Siamo in Cina, a Shenzen, ridente borghetto di dodici milioni di persone dalle parti di Hong Kong, e gli incroci sono controllati da telecamere ad alta definizione. Le telecamere riprendono i pedoni indisciplinati che attraversano fuori dalle strisce o col rosso, e una intelligenza artificiale riconosce i visi, gli affibbia un nome, risale al codice fiscale (al suo equivalente cinese, insomma) e poi –ora– proietta la gigantografia del viso su maxischermi nei pressi degli incroci, con il nome dell’attraversatore e -immagino- una sobria reprimenda. I cinesi sono severi ma educati, per queste cose.

Una gogna mediatica on line in tempo reale, gestita da un software e da tonnellate di telecamere HD. Che ti beccano e ti riconoscono al volo in una città di dodici milioni di persone.

Oggi, non in “New York 2140”.

Pare che il sistema nei primi dieci mesi di attività abbia pizzicato e identificato quasi quattordicimila persone in un unico mega-incrocio in centro.

Ora per abbassare i costi del sistema, le autorità cittadine stanno passando dalla gogna mediatica -che richiede il maxischermone gigante, che costa un botto- all’SMS personale, che arriva all’istante sul cellulare dell’infrangitore della legge stradale. Ad ogni tot messaggini che ti arrivano, perdi punti-società, il che significa che non ti daranno il mutuo per la casa, o che pagherai più tasse. O magari peggio…

Se lo fanno a Shenzen con dodici milioni di persone, che ci vorrà mai a tirare su un sistema simile che controlla tutta l’Italia?

Nel frattempo che il sistema venga esportato (magari con il modello di “democrazia” cinese) godiamoci gli ultimi giorni di libertà che ci concede Microsoft. Dal 1 maggio, infatti, può succedere quel che raccontavo ieri con le sex performers e Google Drive, ma su Skype e Outlook, e senza bisogno di contenuti porno. Basta parlare sboccato o insultare e può partire la censura.

Benvenuto nel 1984, Winston Smith…

 

Barney

Bookcrossing, Sfere e altre sciocchezze

Sono stato a Bruxelles, a dicembre. Per un meeting in uno dei palazzoni della Commissione Europea, sempre lo stesso e sempre al diciannovesimo piano. Davanti alle sale riunione c’e’ una specie di salottino da attesa, e una libreria dove si puo’fare bookcrossing. C’e’ di tutto, in tutte le lingue dell’Unione, e a dicembre m’e’ cascato l’occhio su questo paperback:

pandora

Di Hamilton ho gia’ parlato qua, per la sua trilogia “L’alba della notte“, e’ uno degli autori moderni di science fiction piu’ interessanti. Ho scambiato il romanzo con un fumetto che avevo nello zaino, e me lo sono portato a casa.

Il libro e’ -come accade spesso con i romanzi dello scrittore inglese- un enorme intreccio su scala galattica, che ha come spunto iniziale l’osservazione di una stella binaria lontana centinaia di anni luce che all’improvviso scompare. Non esplode come una supernova, non si affievolisce pian piano: prima c’era, un secondo dopo non c’e’ piu’.

Si scopre presto che le due stelle sono state inglobate in due sfere di Dyson, il che rende la sparizione ancora piu’ misteriosa: gia’ costruire una sfera di Dyson e’ fantascienza. Ma metterla attorno a due stelle in un secondo e’ inconcepibile. Il resto lo lascio a chi vuole leggersi il torrenziale seguito; non prima di avervi segnalato che qualche anno fa il mondo dell’astronomia fu percorso da una scarica elettrica, quando Tabetha Boyajian (una giovane astronoma statunitense) annuncio’ che la sua osservazione della stella KIC 8462852 aveva mostrato anomalie impossibili. KIC ecc ecc. e’ a piu’ di mille anni luce da noi, e gli astronomi la stavano osservando per verificare la presenza di pianeti che le orbitano attorno.

L’osservazione di pianeti da cosi’ lontano e’ piu’ un’indagine indiziaria, che si basa sull’abbassamento della luminosita’ della stella nel caso vi passi davanti un pianeta.

Senza stare a farla tanto lunga, l’abbassamento di luminosita’ registrato era del tutto incompatibile con un pianeta, grosso quanto volete. Vennero fatte molte ipotesi, tra cui quella che attorno a quella stella ci fosse qualcuno che stava costruendo un’enorme sfera di Dyson.

Ma, come potrete sentire da soli tra poco: “extraordinary claims require extraordinary evidence“…

Lascio quindi la parola a Tabby, che vi spiega in modo chiaro e appassionato tutta la storia. Non prima di dirvi che KIC 8462852 e’ nota come “Tabby’s star”, in suo onore.

 

Barney

Qualcuno l’ha gia’ detto…

…mi aggiungo anche io: Game of Thrones e’ una cagata pazzesca.

Questa settima stagione non resta in piedi nemmen con le stampelle, dalla quantita’ di contorsioni logiche e temporali che si sono viste. Il culmine (ahahahahaha!), quello che i fan piu’ accaniti aspettavano da anni, e’ arrivato alla fine: Jon Snow che in realta’ non e’ Jon Snow ma un Targaryen, che si tromba Danaerys Targaryen. Si e’ inziato con i fratelli Lannister che scopano a Winterfell, si finisce -per ora- con questi due che non ho capito quale grado di parentela abbiano. E la scena avviene su una nave, che fa taaanto Titanic…

In attesa, nell’ottava stagione, di un bell’accoppiamento tra il Mastino e il drago blu caduto in mano ai non morti, perche’ -diciamocelo- l’incesto avrebbe anche un po’ rotto i coglioni, spazio alla zoo-necrofilia, perdio!

L’interesse in Game of Thrones e’ oramai di tipo ginecologico: s’aspetta di vedere se le ovaie di Danaerys sono infiammate o no (dovrebbero, d’altra parte lei e’ la Madre dei Draghi, no?), e fanculo se succedono cose a caso nel mezzo, se i personaggi si bilocano che Padre Pio gli fa una sega, se il riassunto delle puntate precedenti sembra un frullato di fegato di canguro,cetrioli sottaceto e vodka al metanolo. L’importante e’ non solo guardare Game of Thrones, ma commentare estasiati ad ogni scorreggia di drago, ad ogni battuta acida di Cersei, a qualsiasi apparizione del Nemico al di la’ della Barriera.

Ho letto i libri della serie pubblicati sin qui, e sebbene i romanzi di Martin non siano la mia lettura preferita si innalzano di miglia sopra la serie tv, soprattutto da quando -spinta dall’enorme successo e da un pubblico formato dal mix perfetto di abbonati a YouPorn e lettori di locandine alle stazioni dei treni- la serie stessa ha deciso di non aspettare gli altri romanzi, ma di andare avanti da sola. A cazzo di cane: facendo morire gente a caso tanto per sfoltire il cast, infilando sotto-sotto-sotto trame dovunque senza la minima pretesa di portarle avanti con un minimo di coerenza. Le cose accadono come se fosse antani, e se gli sceneggiatori sono in difficolta’ basta piazzare davanti l’obiettivo il culo della Madre dei Draghi, e lo share e’ salvo.

Cosi’ e’ facile, forse troppo. Ma il prodotto vende, i fan sono gia’ in fibrillazione per l’ottava stagione e le ipotesi su quel che succedera’ in futuro non si contano piu’. E cosa volete che succeda, se non un altro giro di frullatore?

Nel frattempo, si parla di trasformare in serie tv anche “La ruota del tempo“, ciclo fantasy di Robert Jordan che ha due pregi: e’ terminato ed ha una coerenza che denota un progetto alla base della scrittura, una cosa che Game of Thrones se la sogna. Jordan, insomma, aveva in mente la storia quando inizio’ a scriverla. Un po’ come la serie de “La torre nera” di Stephen King, oggetto di un film che non ho visto per decenza e che dovrebbe trainare l’ennesima trasposizione televisiva spalmata immagino su otto stagioni.

In tutto questo, sempre meno persone leggono. E’ piu’ facile mettersi davanti allo schermo e farsi raccontare la storia dalle immagini, piuttosto che immaginare quel che si legge nella storia.

Soprattutto se ogni tanto Danaerys si esce le tette.

 

Barney

“Zero K”, Don Delillo (Einaudi, 2016)

L’ultimo romanzo di Delillo e’ una delusione.

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E’ una delusione perche’ la scrittura, scarna ed elegante, e’ l’unico contenuto del romanzo. Delillo in questa opera sembra aver generato piu’ frasi possibili mescolate come venivano, all’unico scopo di far vedere come scrive bene. Il che era gia’ noto, per cui avrei voluto trovarci qualcos’altro.

E dire che la storia sarebbe stata interessante: il protagonista, Jeffrey, accompagna il padre in una remota landa dell’ex-Unione SOvietica. Li’ in mezzo al nulla c’e’ un centro, Convergence, dove i ricchissimi e malatissimi si fanno ibernare nella speranza che tra qualche decennio possano essere curati e risvegliati (il titolo -ora e’ chiaro- si riferisce allo zero assoluto, la temperatura minima possibile, zero gradi Kelvin). Il padre di Jeffrey porta al centro la sua seconda moglie, malata terminale.

La prima meta’ del libro e’ il racconto della crioconservazione della donna, raccontata con la voce del figliastro che si aggira svogliato e apatico in questo enorme centro iperteconolgico. Ogni tanto Jeffrey pensa a sua madre, che lui ha visto morire anni fa. E poi nulla: mangia, gira a caso, incontra gente strana con cui instaura dialoghi assurdi. Finalmente la donna viene congelata, e il padre manifesta la volonta’ di seguirla nel viaggio verso il futuro. La cosa avverra’ due anni dopo, e anche questa volta Jeffrey accompagna il padre a Convergence.

Nel mezzo la storia del protagonista con Emma, una maestra divorziata con un figlio adottivo ucraino che alla fine del libro scompare per apparire poi a Jeffrey in TV, a Convergence: il ragazzo si e’ arruolato tra i ribelli ucraini e viene ucciso in diretta televisiva.

Alla fine il nostro Jeffrey se ne torna negli USA, inizia a lavorare e pronuncia la frase-simbolo del libro:

Sento che mi sto adattando a una vita lunga e mite e l’unica questione che rimane aperta e’ quanto finira’ per essere letale.

Il che e’ stupefacente, visto che sin li’ l’uomo e’ stato il ritratto della passivita’ e dell’inazione.

Ma tant’e’. Capisco che Don stia invecchiando, che c’e’ da scrivere della morte che s’avvicina… ma questo l’aveva fatto gia’ benissimo prima, quando era piu’ giovane, senza cercare l’epitaffio perfetto per la sua tomba.

E no: questo libro NON e’ l’epitaffio perfetto.

 

Barney