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“Jojo Rabbit”, T. Waititi (USA, 2019)

Va visto, punto. Assieme a “Parasite” uno dei più bei film degli ultimi tempi, ma con in più l’azzardo di trattare una materia delicata come il nazismo con un sarcasmo che “La vita è bella” se lo sogna. E con una colonna sonora fantastica.

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Jojo Rabbit parte con “Komm gib mir deine Hand” che accompagna, nel 1945, il protagonista -un imbranato decenne austriaco invasato del Reich- ad un campo di addestramento della Gioventù Hitleriana. E il pezzo altro non è che “I wanna hold your hand” dei Beatles cantata dai 4 di Liverpool in tedesco. Sui titoli di testa scorrono in sincrono con la musica spezzoni originali dell’epoca, con le mani che sventolano e si rizzano nel saluto al Fuhrer a tempo con i coretti dei fab four, e le gole che urlano altrettanto a tempo.

Si prosegue con lo stesso campo, e con i bimbetti impegnati in improbabili scalate con le corde, e la musica ora è “I don’t wanna grow up“, versione originale di Tom Waits.

E non vi dico null’altro del resto, se non che il finale è bellissimo e vede i due piccoli protagonisti ballare sulle note di “Helden“, che ovviamente è “Heroes” di David Bowie (la versione che sta nella colonna sonora di “Christiana F.”, insomma).

Commuove e fa ridere, “Jojo Rabbit”. E fa pensare a quanto folle sia stata quella carneficina, a quale livello di idiozia ci fosse dietro la guerra e lo sterminio degli ebrei.

Che -come scoprirà Jojo- non hanno nè corna nè coda.

Anzi, sono proprio uguali a lui.

 

Barney

 

“L’età giovane”, J-P e L. Dardenne (Belgio-Francia, 2019)

Due registi di culto abituati a vincere la Palma d’Oro a Cannes che quest’anno si son dovuti accontentare del premio per la miglior regia (perchè obbiettivamente Parasite è anni luce meglio di questo film), una ambientazione che mi ha sostanzialmente trascinato al cinema (la storia si svolge a Bruxelles, che considero la mia seconda casa), un argomento certamente interessante e altrettanto certamente di attualità. Tutto questo non fa di “L’età giovane” un capolavoro, e molto influisce sul mio personale giudizio la decisione politicamente corretta (ma cretina e radical-chic) di cambiare il titolo originale francese in quello che trovate nelle sale.

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I fratelli Dardenne hanno intitolato la loro ultima fatica “Le jeune Ahmed” pour cause, come direbbero loro. La storia è semplice e può essere raccontata  tutta in due righe: Ahmed, tredicenne di origine araba, viene convinto da un Imam ad imboccare la via del radicalismo islamico, fino a farne un potenziale terrorista in erba. La scelta di eliminare la componente islamica in italiano è incomprensibile, anche perchè a mio modestissimo avviso il film è neutro (aggiungerei colpevolmente neutro) sull’argomento che tratta, ossia la radicalizzazione religiosa.

Non è tutto qua ovviamente, ma a me ha colpito di più quello che manca, nella pellicola: le motivazioni per l’inizio del percorso di radicalizzazione, i mezzi usati per questo percorso, i passaggi intermedi da ragazzino normale a fanatico pronto ad uccidere in nome di Allah… tutto viene dato per scontato, perchè -mi è stato detto- la forza di questi registi è il non interferire nella storia, il filmare come se si trattasse di un documentario, il non far vedere la mano di Dio dietro la macchina da presa. Non c’è nemmeno come ho già detto una netta presa di posizione che potremmo definire “politica” (e come potrebbe esserci, stanti le premesse sopra?), tutto avviene nel distacco più algido.

Si, certamente si capisce bene che Ahmed è minoritario anche in un ambiente come quello delle periferie di Bruxelles in cui la crisi economica e la ghettizzazione degli stranieri produce parecchi jihadisti: i suoi compagni, la famiglia, la maestra pur essendo islamici sono tutto fuori che fanatici terroristi. Tanto che i bersagli della rabbia folle del bambino sono proprio gli arabi vicino a lui, considerati impuri e indegni delle parole del Corano.

Boh, alla fine m’è parso che il soggetto avrebbe potuto essere completamente diverso e il film si sarebbe potuto girare esattamente nella stessa maniera, un po’ come se davvero si trattasse di un documentario e si passasse dalla migrazione dei capodogli artici all’accoppiamento del cervo della Birmania in tre fotogrammi.

Forse è questo che caratterizza i grandi registi? Non lo so, il film a me non ha lasciato molte emozioni, direi “sufficiente” sulla mia personale scala di gradimento.

Come parziale compensazione, e su un argomento parallelo (anche se non completamente assimilabile) segnalo questo bell’articolo di Michel Onfray, filosofo ateo e anarchico che parla di una Francia che ha parecchi punti in comune con il Belgio dei Dardenne, ma descritta meglio.

 

Barney

“Parasite”, Bong Joon-Ho (Corea del Sud, 2019)

Se volete divertirvi pensando, andate a vedere “Parasite”.


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La potrei finire qua e sarebbe più che sufficiente, ma devo innanzitutto far notare che siccome questa pellicola ha vinto la Palma d’Oro a Cannes, mentre “Joker” si è aggiudicato il Leone d’Oro a Venezia, allora si potrebbero trarre conclusioni sulla qualità delle rispettive giurie (e a mio modestissimo avviso vincerebbero i cugini francesi a mani basse…), o dei film presentati al Lido o alla Croisette (come sopra).

Non spoilererò nulla della seconda parte del film, tranquilli. Vi prego però di spendere un paio di minuti non a leggere il resto dei miei deliri, ma a guardare con attenzione la locandina qua sopra, e confrontarla con quella di Joker.

Là abbiamo Phoenix che prende tutto lo spazio con la faccia truccata da Joker, perchè Phoenix è il film.

Qua sopra abbiamo invece (quasi) tutti i protagonisti raccolti sul set principale del film di Joon-Ho (che tra l’altro è anche il regista di questa roba qua, altrettanto da vedere), una villa ultramoderna (la metto tra i protagonisti principali) su una collinetta di una città coreana. Ma se andrete a vederlo, nella locandina potete trovarci altri “protagonisti”: il quadro alla parete a sinistra, quella roba sul tavolo sotto al quadro accanto alla ragazza, le lampade tonde a destra… tutto funzionale ad una storia che parte con i crismi di una commedia classica occidentale ma che muta in altro man mano che il plot si dispiega.

In breve, e senza svelare nulla di fondamentale: una famiglia coreana (padre, madre, un figlio e una figlia) che vive in uno scantinato adattato a casa quasi abitabile, tira avanti grazie ad espedienti quotidiani. Si avverte subito nella famiglia l’orgoglio di poter sopravvivere sostanzialmente da parassiti, con il minimo sindacale per raccattare i soldi per mangiare.

Un giorno il figlio riceve da un amico in partenza per l’estero la richiesta di sostituirlo come insegnante di inglese di una ragazza di ottima e ricchissima famiglia. Titubante, il ragazzo ci prova, viene accettato dalla padrona di casa e dà il via a tutto quel che segue.

Un film splendido anche senza stare a tirar fuori le possibili letture politiche locali, anche perchè la storia si adatta secondo me a buona parte del mondo (con aggiustamenti, e non vi sto a dire quali), quindi andatelo a vedere prima della inevitabile trasposizione occidentale (che ci sarà, ci potrei scommettere dei soldi: le buone idee sono difficili da avere, ma facili da copiare). Tutto bello: gli attori, la sceneggiatura, la fotografia, la villa in cui si svolge l’azione ma anche il tugurio d’origine della famiglia dei parassiti.

Per me il miglior film da anni (con questo dovrei avere convinto parecchia gente a non adare a vederlo, purtroppo…).

 

Barney

 

“Joker”, T. Phillips (USA, 2019)

Joaquin Phoenix avrebbe dovuto vincere l’Oscar qualche anno fa, per la splendida interpretazione di Doc Sportello nel bellissimo “Vizio di forma” di Paul Thomas Anderson. Probabilmente lo vincerà a furor di popolo per la sua trasfigurazione in Joker, di Phillips, che però è un film mediocre da molti punti di vista.

JOKER

La probabilità che un film (liberamente) ispirato ad un personaggio dei fumetti che vince il Leone d’Oro a Venezia sia una delusione è pari a quella che io non diventerò mai Papa: quasi il 100%.

Phillips gioca d’astuzia e racconta le origini di uno dei cattivi storici della DC ispirandosi (ancora molto liberamente) a “The killing joke” scritto da Alan Moore e disegnato da Brian Bolland.

Del fumetto si salva in pratica la storia del comico mancato, deriso in localini, e basta.

Il resto del Bat-Universe serve per (s)contentare chi al cinema c’è andato pensando al fumetto: l’ambientazione (siamo ovviamente a Gotham, e dove, sennò?), l’Arkham Asylum, il vestito sgargiante e il trucco da pagliaccio del Joker trasformato nel prodromo del criminale che impazzerà per decenni sulla metropoli immaginaria, financo la scena dell’uccisione dei genitori di Bruce Wayne nel vicolo -vista da tutte le angolazioni in dieci pellicole diverse, negli anni-… tutta roba in più che i veri cinefili andati a vedere il film vincitore di Venezia non avranno percepito o avranno giudicato inutile.

I primi tre quarti del film indagano nella psiche già traballante di Arthur Fleck, e preparano all’inevitabile scoppio di follia senza ritorno che coinciderà con la nascita di Joker quasi a giustificare la malvagità finale, che potrebbe apparire davvero inevitabile se la pellicola avesse mire di introspezione psicanalitica.

In realtà -come ho letto da qualche parte- l’unico modo di godere del film è fermarsi alla superficie, perchè scavando non si trovano che falle evidenti nella sceneggiatura e nella regia. Un’operazione furbetta che cerca di mettere la cravatta al porco, come si direbbe in Toscana, facendo assurgere a wannabe capolavoro artistico una storia a fumetti proprio perchè il fumetto viene considerato non degno di essere catalogato tra le opere d’arte.

Ecco: andrebbe detto a Phillips che le cose non stanno così, e che avere vinto Venezia con questo film non lo pone certamente nell’Olimpo dei registi.

Anzi…

 

Voto: 5 al film, 9 a Phoenix.

 

Barney

“C’era una volta… ad Hollywood”, Q. Tarantino (USA-UK, 2019)

Cast stellare per il nono film di Quentin Tarantino, il più “tecnico” del regista americano.

Una storia sul cinema in cui non solo noi guardiamo gli attori sullo schermo, ma anche loro si guardano recitare, in tv (Di Caprio e Pitt) o al cinema mischiati agli altri spettatori (Margot Robbie). In questo caso guardando la macchina da presa, e in ultima analisi noi.

Un film iper-ricorsivo, che interrompe continuamente la quarta parete senza che lo spettatore se ne accorga.

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Los Angeles, 1969. Leonardo Di Caprio è un attore in crisi, che ha costruito (o pensava di costruire) una carriera sui telefilm western e sul fatto di avere come controfigura il suo migliore amico (Brad Pitt) si sente consigliare da un vecchio e sgamato produttore (Al Pacino) di varcare l’Atlantico per recitare negli spaghetti western. L’attore rifiuta e cerca il rilancio attraverso una puntata pilota dell’ennesima serie western, dove lui fa ovviamente il cattivo.

Intanto si fa scarrozzare dalla controfigura (gli hanno ritirato la patente) e fa la bella vita nella sua casa di Cielo Drive, a Bel-Air. Leggendo l’indirizzo i più vecchi avran sentito suonare un campanellino nel cervello: infatti al 10050 di quella strada in piena estate ci fu uno degli omicidi più famosi ed efferati della storia americana, mandante il santone pazzo Charles Manson. Chi non sapesse di cosa sto parlando è caldamente consigliato di informarsi, saltando ogni riferimento al film di Tarantino se non vuole spoiler.

Non dirò altro sul plot, li film è splendido per come è costruito -a partire dalle ricostruzioni della Los Angeles di fine anni ’60-, per come è recitato e per come è girato. Non è il classico prodotto Tarantiniano, ma un divertissement raffinato di un regista che riesce in due ore e mezza a produrre un raffinato  inno ai suoi stilemi di sempre senza annoiare mai, e senza cadere nel ridicolo. Anche grazie al cast, ovviamente. E ad una colonna sonora che più sixties non poteva essere.

Da vedere (ripeto: SAPENDO cosa è successo nel 1969 al 10050 di Cielo Drive).

 

Barney

 

“The rider”, C. Zhao (USA, 2017)

Le premesse per un film inguardabile, che avrebbe ucciso anche il più smaliziato frequentatore di cinema d’essai, c’erano tutte: giovane regista cinese, per di più donna, cast fatto tutto da non attori che recitano la loro vita, storia incentrata sui rodei, pellicola presentata in anteprima a Cannes due anni fa, uscita dopo un anno negli USA e dopo altri dodici mesi da noi…

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E invece vi consiglio di andare a vederlo, se vi capita.

The rider è la storia assolutamente vera del protagonista, il ragazzo che vedete qua sopra, che si chiama Brady Jandreau e vive in South Dakota. E’ un indiano Lakota, fa l’addestratore di cavalli ma soprattutto partecipa -vincendo- ai rodei. Ad uno di questi il cavallo lo disarciona e gli piazza una zoccolata in testa, conciandolo parecchio male. Ma sempre meglio del suo amico fraterno Lane Scott, tetraplegico e muto su sedia a rotelle dopo che un toro l’ha sbattuto a terra e calpestato. Brady vive in una casa mobile con il padre e la sorella autistica, senza soldi e senza prospettive dopo che i medici gli hanno detto chiaro e tondo che se si azzarda a ritornare in sella ad un rodeo ci lascia la pelle. Cerca di trovare un altro lavoro, va all’ufficio di collocamento del buco in mezzo al nulla in cui vive e quando l’impiegata lo interroga si scopre che non è andato praticamente mai a scuola, e l’unica cosa che sa fare -e bene- è occuparsi di cavalli.

Si ritrova a fare il cassiere in un piccolo supermercato, ma il richiamo della prateria è troppo forte e alla fine si iscrive ad un rodeo.

Tutto questo in un paesaggio splendido, con tempi lunghissimi, pochi dialoghi e molto di non detto da parte di tutti i protagonisti.

Questi ultimi sono il vero valore aggiunto di The rider: tutti impersonano loro stessi (solo i cognomi sono stati cambiati dalla Zhao), nessuno è un attore e si resta impressionati dalla tranquilla serenità con cui mettono in scena la loro vita, quella vera.

Molto bello, davvero: non sembra ma lo è.

 

Barney

“Vice- l’uomo nell’ombra” A. McKay (USA, 2018)

Dopo “La grande scommessa” Adam McKay gioca al rialzo e racconta cinquant’anni di storia politica americana attraverso una biografia molto romanzata di Richard “Dick” Cheney.

Personalmente conoscevo Cheney solo come vice Presidente nell’era GW Bush, ma la sua carriera politica è vecchia più di me, e inizia addirittura con l’altro “Tricky Dick” della storia a stelle e strisce: Nixon.

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Diciamo subito che Adam McKay non è un repubblicano, che il film è “a tema”, che si schiera immediatamente dall’altra parte rispetto a Cheney, e che per questo i conservatori -anche e soprattutto nostrani- medi schiferanno la pellicola.

Chi va oltre il tifo politico non potrà non ammirare la tecnica narrativa del regista (che riprende i trucchi narrativi di “The big short”, primo tra tutti il continuo infrangere la quarta parete, più una fantastica fine a metà film con tanto di titoli di coda, buio e assolvenza su un nuovo inizio), e la prova corale di un cast altrettanto rodato. Oltre a un Christian Bale da Oscar per quanto si è reso irriconoscibile (è dura arrivare alla fine senza pensare che ci fosse uno stuolo di attori ad impersonare Cheney), ci sono Amy Adams che fa la signora Cheney, Steve Carell (con Bale e McKay anche ne “La Grande Scommessa”) nel ruolo di un altro personaggio di elevato peso specifico e poca visibilità (Donald Rumsfield) e Sam Rockwell nei panni di George W Bush. Ma tutti i maggiori protagonisti degli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo sono chiamati sul palcoscenico: da Condoleeza Rice a Colin Powell a Paul Wolfovitz. Oltre a Nixon, Kissinger, Carter, Ford, Reagan, George Bush Senior… quelli della “prima vita” di Cheney insomma.

Ci sono tante cose interessanti nelle due ore di pellicola, oltre all’ascesa quasi casuale di un giovane sfaccendato fino alla cima della catena di comando del paese più potente al mondo: ad esempio l’uso di gruppi di cittadini per testare l’efficacia di certi messaggi politici (vent’anni fa non c’erano i social media, per manipolare le idee della gGente si doveva fare un po’ più di fatica, e studiarla abbastanza bene. Uno come Di Maio sarebbe durato come un catto sull’Aurelia, per esempio, di fronte a un Rumsfield), o la capacità quasi robotica di Cheney di distinguere tra le idee del partito Repubblicano sulle unioni omosessuali e l’omosessualità di sua figlia minore, difesa e sostenuta per quarant’anni da tutti gli attacchi esterni (finché la sorella maggiore non scende in campo per uno scranno al Senato, e sconfessa la sorella distruggendo l’unità di una famiglia che nel privato era unitissima), o scene eccezionali come l’arrivo di Carter alla Casa Bianca che fa montare i pannelli solari sul tetto, e al giro dopo arriva Reagan che smonta tutto.

Ma soprattutto c’è cinema di ottimo livello, c’è storia -vera e romanzata-, ci sono attori eccellenti… c’è tutto quello che dovrebbe portare la gente al botteghino, e spero che in molti vadano a vedere anche questo prodotto, dopo essersi fatti la fila per la storia di Freddie Mercury: ne vale veramente la pena.

 

Barney

“Spider-man: un nuovo universo”, P. Ramsey, R. Persichetti, R. Rothman (USA, 2018)

Ore 15,45, unica proiezione nella mia città di “Spider-man: un nuovo Universo”.

Superata una folla di bambini urlanti, aggrappati alla macchina del popcorn come cozze allo scoglio, arrivo al botteghino.

“Un biglietto, grazie”

“…? Per lei? Per Spider-man?”

“Si, non è colpa mia se ci portano i bambini”.

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Ecco, diciamolo subito: “Spider-man, un nuovo universo” non è un film di animazione per bambini. O meglio: non per tutti i bambini. Alcuni potranno divertirsi a qualche battuta (ne capiranno poche), ridere all’apparizione di Spider-ham, gioire -forse- dell’animazione splendida e dei colori impressionanti, ma la storia è cupa alla fine, c’è il cattivo (e che cattivo: Kingpin), e se non lo sapete già Peter Parker muore.

E il film è spettacolare, da vedere: in molti hanno definito questo nuovo Spider-man “qualcosa che non si era ancora visto”, un mix tra action movie, fumetto e manga, con colonna sonora da suburbi newyorkesi che ci sta alla grande. Non posso che confermare, aggiungendo che se avete visto il trailer in tv o su youtube, non avete visto nulla della eccellenza dell’animazione e della vividezza dei colori che animano lo schermo del cinema.

C’è una storia, che regge come tutte le storie di fumetti e che come un fumetto va presa, ci sono i buoni (tanti), c’è il già nominato Kingpin come cattivo contornato da molti nemici storici del ragno, ci sono continui riferimenti al mondo Marvel che faranno contenti i lettori delle nuvole parlanti, c’è anche in questo film una continua rottura della quarta parete, qua fatta tirando sullo schermo proprio i fumetti, a spiegare antefatti e storie laterali. E ci sono le onomatopee scritte a caratteri cubitali che appaiono sullo schermo proprio come se stessimo leggendo un fumetto: “BOOOOOOOM”, “BANG” e via andare.

C’è insomma tanto cinema dentro questo film, e dispiace vedere come in Italia la pellicola sia passata come “film di Natale per famiglie” invece che come prodotto che farà la storia.

Fidatevi.

 

Barney

 

“Il ragazzo più felice del mondo”, Gipi (Italia, 2018)

Tra le cose belle di Lucca Comics and Games 2018 per me c’è stata la visione de “Il ragazzo più felice del mondo”, secondo film serio di Gipi dopo “l’ultimo terrestre” (che a me era piaciuto moltissimo).

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E’ questo un film che andrebbe visto solo per la storia (vera) che sta dietro alla pellicola, e che vado indegnamente a sintetizzare qua sotto molto peggio di quello che farebbe il regista (per cui vi consiglio di vederlo assieme a lui, in questi giorni sta girando qua e la per promuoverlo, e se avete fortuna vi capita nel raggio di qualche decina di chilometri).

1997. Uno scalcagnato disegnatore toscano che tira a campare pubblicando storie non porno su una rivista semi-porno riceve una lettera vera, scritta a mano. E’ di un ragazzo di 14 anni. Francesco, che si dichiara fan sfegatato del disegno erotico (??!!!) e degli animali, e chiede cortesemente allo scalcagnato disegnatore “uno schizzetto” su un cartoncino appositamente inserito all’interno della lettera. C’è anche un francobollo, e se lo scalcagnato disegnatore volesse fare lo schizzetto e spedire il cartoncino al ragazzo, egli sarebbe il ragazzo più felice del mondo. Il disegnatore archivia la missiva in uno scatolone, non dopo essersi fatto una sana overdose di autostima: in fondo ha un fan, per la miseria!

2017. Il disegnatore scalcagnato è diventato un fumettista rinomato e poliedrico, oramai i suoi lavori sono etichettati come “graphic novels” e  riesce agevolmente a pagare le bollette del gas, invece che doversi procurare la legna nel bosco per scaldarsi. Una sera si mette a curiosare sulle bacheche virtuali dei suoi colleghi, e gli cade l’occhio su un post di un amico, Alessio Fortunato.

Anche lui disegnatore.

Anche lui ha ricevuto la stessa lettera da Francesco, che ora ha 15 anni e che scrive sempre a mano, inserendo nella busta un cartoncino preaffrancato, perché se Alessio volesse cortesemente farci sopra uno schizzetto e rispedirlo indietro, ecco: lui sarebbe il ragazzo più felice del mondo.

Dopo una telefonata all’amico per avvertirlo che la stessa lettera lui l’ha ricevuta vent’anni prima, il disegnatore toscano -mosso da morbosa curiosità e animato da una felice intuizione- scrive un messaggio a tutti i suoi colleghi di matita, chiedendo se a qualcuno di loro è per caso capitato di aver ricevuto in questi venti lunghi anni una letterina da Francesco, con richiesta di “schizzettino” su cartoncino preaffrancato.

Poi il disegnatore va a dormire.

La mattina si sveglia, e nella sua cassetta di posta -elettronica- trova cinquanta messaggi. Di cinquanta diversi disegnatori che hanno ricevuto la lettera. Sempre la stessa. Con soltanto alcuni particolari differenti che rendono ciascuno di questi cloni un’opera unica.

Ecco, il film racconta questo, e come Gipi e tre amici si mettono in moto per rendere davvero quel ragazzo (che oramai, nel 2017, tanto ragazzo non sarà più…) veramente il ragazzo più felice del mondo.

Già questo a me farebbe venire voglia di andare al cinema, in realtà nel film c’è di più. E sorprendono le prove più che convincenti dei quattro protagonisti, principianti assoluti nel ruolo di attore, sorprende il meta-linguaggio utilizzato, le battute, anche la regia non è per niente male. Sopra a tutto poi il continuo ammiccamento alla rottura della quarta parete che divide lo spettatore dagli attori, a rendere questo film qualcosa di diverso da quel che si vede solitamente al cinema.

Il giorno prima della proiezione ho avuto il piacere di ascoltare Gipi raccontarsi nella sua veste classica di fumettista, e una delle cose più interessanti che ha detto si riferisce a una serie di tavole del suo ultimo libro “La terra dei figli” (chi non l’ha ancora letto può approfittare della riproposizione a prezzo politico con Repubblica, in edicola). La storia non sto a raccontarvela, merita di essere letta tutta, però l’episodio commentato da Gipi merita due parole: i protagonisti del libro sono due ragazzi che vivono in un futuro distopico dove i giovani non sanno leggere né scrivere. I due a un certo punto riescono ad impossessarsi di un diario scritto da loro padre, e il ragazzino più giovane a un certo punto apre il diario. Da lì la prospettiva del lettore è quella del ragazzo, che si trova davanti (e noi con lui) pagine e pagine di carta con dei segni vergati sopra, che per lui non hanno alcun significato. Una voce fuori campo (il fratello maggiore) chiede “Che fai?”. Il ragazzino risponde “Leggo”. Il fratello replica “Ma tu non sai leggere”. Però il giovane continua per pagine e pagine a sfogliare quella carta con degli scarabocchi neri, e noi con lui, e lui e noi cerchiamo di interpretare quegli scarabocchi, dki capire cosa il padre abbia scritto lì sopra. E noi diventiamo lui, e credo che questo sia il massimo che un artista può chiedere alla sua opera: che inglobi il fruitore e lo renda parte della storia.

Ecco, “Il ragazzo più felice del mondo” non arriva a questo livello di coinvolgimento, ma di sicuro alla fine del film gli spettatori si saranno in qualche misura ritrovati in uno dei quattro personaggi, e ciascuno avrà un finale in testa diverso da quello che è stato proiettato sullo schermo. Un’ora e mezza spesa benissimo, se ne esce divertiti e curiosi.

E poi, se l’orecchio non m’ha ingannato, c’è pure un pezzo dei Minutemen come colonna sonora, che volete di più?

Toh, ve ne metto uno anche io qua sotto:

 

Barney

 

“Ready Player One”, S. Spielberg (USA, 2018)

Di Ready Player One (da ora in avanti RPO) ho sentito e letto parecchio, il giudizio quasi unanime è “film da nerd” (qualsiasi cosa cio’ significhi), l’accostamento che fanno tutti è “un film su Second Life!“, il parallelo con i fatti degli ultimi mesi non può che portare al caso Facebook-Cambridge Analytica… ma io c’ho visto anche altro.

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La prima cosa che mi è venuta in mente all’uscita è che è un film da adolescenti fatto da un settantunenne. Però con contenuti adatti ad un ultratrentacinquenne e trama da cartone animato disegnato male. Ma realizzato con la potenza e le infrastrutture di calcolo del 2018 (in realtà del 2017, per essere precisi).

Un frullato di rognone e latte condensato, insomma, confezionato in una bottiglia con sopra scritto “Dom Pérignon“.

E’ un film da adolescenti perché adolescenti sono i protagonisti, non c’è una scena erotica in tutto il film, la gente non muore mai e soprattutto c’è un lieto fine che si intuisce sin dal terzo minuto (e la pellicola dura due ore e venti).

E’ fatto da un settantunenne che vuole ravanare tra i ricordi di quando lui era cinquantenne o anche quarantenne, o addirittura trentenne: basta vedere la sterminata quantità di citazioni della cultura giovanile (la gGente dice “popolare”. A me questo fa incazzare, perché la cultura è cultura e stop, e se non capisci la bellezza di Akira son cazzi tuoi) di qualche decina di anni fa che Spielberg ha infilato nelle due ore e venti del film (dalla moto di Akira, appunto, alla Delorean di Doc Brown, passando per Gundam, il Gigante di Ferro, e una quantità industriale di personaggi dei vecchi videogiochi).

Gode ovviamente del fatto che adesso con la Computer Graphics ci fai di tutto, per cui le ambientazioni -sia quelle vere che quelle “da realtà virtuale”- sono spettacolari.

Ma alla fine almeno a me è rimasto il sospetto di avere buttato via i soldi, per una cosa che avrebbe potuto trattare certe tematiche in modo più maturo, ma proprio per come è stato realizzato il mappazzone proprio non ha potuto.

Ed è rimasto un qualcosa che sta a metà tra il serio e il giocoso, un prodotto adattissimo al pubblico di tutte le età tra i trenta e i novant’anni, i neo-neotenici, quelli che non vogliono crescere mai, come cantava Tom Waits anni fa.

Una interessante lettura alternativa di RPO la trovate qua. Merita la visita.

 

Barney