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Filosofia da muro #137 (hat trick: Pendolante)

Tre parole spruzzate su un anonimo muro di un’anonima città italiana, mandatemi da Pendolante, a definire una verità assoluta-almeno per me-, comunque le si voglia leggere.

Eccole:

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Intanto ammiro la capacità di fotografare dritto di Katia, e pure la drittezza di chi ha scritto magari al buio in quasi perfetto piombo con l’orizzonte.

Poi, non posso che concordare -in qualunque maniera si intenda la scritta- con lo scrivente: sia che si parli di bevanda gassata al caramello, sia che ci si riferisca alla polverina da naso, sia che la “e” abbia o meno l’accento siamo comunque secondo me dalla parte della vera mediocrità. La coca da naso non credo la proverò mai, quella da bere a me ha sempre fatto schifo, credo che da quando ho memoria ne avrò bevute una decina, e direi tutte con aggiunta di rum.

Il blues invece mi piace, e mi piacciono Margo e i suoi fratelli.

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°10: P. K. Dick e Pazienza

Ricordo ancora vividamente quando lessi la notizia su un modesto trafiletto annegato nelle cronache di un 1988 che ci avrebbe lasciato come episodi storici il sequestro Casella, gli Oscar a Bertolucci, e “er Canaro”.
Nell’anno del primo mandato presidenziale a un esponente della sciagurata famiglia Bush, il sedici di giugno moriva nelle campagne di Montepulciano Andrea “Paz” Pazienza, morto come era vissuto: troppo intensamente.
Ricordo la sensazione di perdita di un autore geniale, uno che davvero faceva di tutto con la matita e il pennarello, con il tratto e con le parole. E ricordo, tre anni dopo, lo stupore e la gioia nel vedere dal vivo moltissime sue tavole esposte a Siena.

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Pazienza è il primo protagonista del parallelo di oggi, e lo è con la sua prima opera “seria”, pubblicata alla fine degli anni ’70 su Linus: “Pentothal”.
Il fumetto racconta secondo me meglio della sua ultima opera (“Pompeo”) sia l’epoca in cui Pazienza viveva, sia il suo demone interiore: la droga, da cui mai riuscirà ad allontanarsi del tutto. Spade, canne, polveri e alcool appaiono quasi ad ogni pagina del romanzo per immagini del Paz, che cambia registro con la stessa rapidità con la quale d’agosto cambia il tempo sull’appennino toscoemiliano, a specchiare probabilmente anche differenti umori dell’autore.
Oltre alla droga e allo sballo, oltre alle rivolte studentesche, al DAMS, a Bologna, alla politica di quegli anni terribili “Pentothal” racconta anche e soprattutto i pensieri e i sogni di Pazienza facendoli spesso narrare dal disegnatore stesso. Anche “Pentothal” è metafumetto ricorsivo come “Maus”, anzi lo è all’ennesima potenza: oltre che la vita di Pazienza l’autore cita stilisticamente un migliaio di mostri sacri del mondo dei comics: da Eisner a Moebius, a Magnus, a Crumb, a Toppi in un continuo gioco di specchi e di rimandi che danno la cifra della bravura a trecentosessanta gradi di Paz.

L’altro protagonista del parallelo di oggi è “Un oscuro scrutare”, casualmente pubblicato per la prima volta proprio nel 1977, lo stesso anno di “Pentothal”, e pietra miliare della produzione di P. K. Dick.
Dick ha scritto decine e decine di romanzi, ma questo racchiude in qualche centinaio di pagine tutta la tematica classica dickiana: la droga, le allucinazioni, la sostanziale impossibilità a definire cosa è reale e cosa no, la religione, le fobie, la società repressiva e in grado di controllare tutto quel che fa il comune cittadino.
La droga è qua protagonista assoluta, non esce casualmente e quasi gioiosamente dalle pagine come nel fumetto di Pazienza: la “sostanza M” è la vera star, e il tossico Bob Arctor (che ha anche una seconda vita come poliziotto antidroga sotto copertura) ne viene talmente condizionato che alla fine subirà conseguenze drammatiche dovute all’abuso della sostanza. Come ne “Il pasto nudo” di Burroughs (trasposto su pellicola da David Cronemberg), spesso le allucinazioni sono a tema entomologico, e sempre la causa esplicita è la droga.

È avvertibile in “Un oscuro scrutare” la differenza rispetto a “Pentothal” per quel che riguarda le conseguenze della tossicodipendenza che entrambi gli autori hanno provato: Dick ha superato – con pesanti conseguenze – la dipendenza, ha visto il baratro e in qualche modo è riuscito a uscirne; di questo pare scrivere e ammonire il lettore su quello che comporta l’abuso di droghe. Pazienza, almeno in “Pentothal”, pare ancora lontano dalla consapevolezza della morte, del pericolo che l’eroina porta con se. Quel pericolo che gli apparirà chiarissimo davanti in “Pompeo”, ma a quell’epoca, dieci anni dopo “Pentothal”, sarà troppo tardi.

“Pentothal”, Andrea Pazienza, Fandango Libri
“Un oscuro scrutare”, Philip Kindred Dick, Ed. Fanucci

 

Barney

Fa discutere, il discorso di Corallo all’assemblea del PD. Fa discutere, ovviamente e massimamente, per le cose a mio avviso sbagliate, come spesso succede a sinistra, evidenziando ancora una volta come, al momento, sia impossibile non solo per i partiti di area progressista, ma anche per i loro potenziali elettori, parlare senza attaccarsi, senza […]

via Il problema del PD. — non si sevizia un paperino

 

Barney (che semplicemente vi segnala il gran pezzo)

Filosofia da muro #131 (hat trick: adp)

Ammennicoli di Pensiero mi manda questa foto, che lui stesso colloca in una “stazione ferroviaria sotterranea di una più o meno ridente città padana” (e più non dimandare):

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All’inizio ero convinto che il “sei” iniziale dovesse leggersi “si”, così da generare una specie di aforisma da talent show o da reality (livello basso, insomma).

A rileggerlo invece può benissimo essere che la frase sia stata voluta proprio così, e che invece che una generica affermazione valida per tutti si riferisca a una particolare donna.

Non che il livello si alzi di chissà quanto, eh? Ma la cosa assume una sfumatura personale che rende il tutto più intrigante: quali danni potrebbe aver subito la donna, e in quanti anni?

Ah, solo chi passasse di nuovo nella stazione ferroviaria sotterranea di una più o meno ridente città padana potrebbe casualmente imbattersi nello scribacchino e domandarglielo.

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°8: Reviati e Hornby

Il calcio come metafora di vita, fede incrollabile e pietra di paragone per il resto del mondo -fidanzata inclusa -, oppure come unico svago, ma svago dannatamente serio, in un paese che deve fare i conti con le contraddizioni di una industrializzazione rapida e selvaggia.
Lo sport popolare per eccellenza, il passatempo che ha bisogno solo di un po’ di gente e di spazio – e di una palla… – è il protagonista di “Febbre a 90′”, di Nick Hornby e di “Morti di sonno”, di Davide Reviati.

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Entrambi i romanzi partono dalla fanciullezza dei due protagonisti e ne seguono la maturazione di partita in partita: vista allo stadio in “Febbre a 90′”, giocata all’ultimo sangue nel campetto ai giardini in “Morti di sonno”.

I due mondi che fanno da sfondo alle storie sono molto differenti: la Londra di Hornby dal 1968 ad oggi è una metropoli in cui la middle class se la cava decentemente, e andare allo stadio la domenica è un rito molto più normato che le funzioni in chiesa. Si assiste, nel libro, alla evoluzione delle tifoserie da chiassose e urlanti orde di innocui fanatici storditi dal pranzo domenicale a covi di sanguinari hooligans, evoluzione che va di pari passo con la feroce emersione della crisi sociale del periodo Thatcheriano. Tragedie immani, come i novantacinque morti di Hillsborough del 1989, punteggiano il racconto e costringono alla fine l’Inghilterra all’ammodernamento di stadi centenari, in cui la gente seguiva la partite in piedi, in equilibrio instabile su gradoni di cemento e legno. L’Heysel, qualche anno prima, aveva contribuito all’inizio della fine degli hooligans.

Il fumetto di Reviati racconta l’esplosione di benessere legato al boom economico dell’Italia degli anni ’60-’70. È il periodo di Mattei e della chimica all’avanguardia, che sforna meraviglie e veleni in pari quantità. E produce anche profondi cambiamenti sociali: la storia si svolge in un villaggio vicino all’enorme sito produttivo ANIC di Ravenna; il villaggio – una piccola enclave autosufficiente – è stato fortemente voluto da Mattei, e raccoglie le famiglie degli operai del petrolchimico, un benefit aziendale ante litteram.
In Reviati il calcio è l’esorcismo giovanile per non pensare al pericolo sempre imminente di incidente chimico, una fuga di sostanze, un’esplosione catastrofica che sempre incombono sulla piccola comunità, come le morti non così infrequenti di vari operai in orribili incidenti spesso solo ipotizzati.
Il calcio è pure una delle poche vie di fuga da una vita segnata in partenza, che vede lo sbocco logico del lavoro al petrolchimico come la meta da tutti presagita – e temuta – sin dalla più tenera età. Chi gioca bene può pensare di farsi una esistenza altrove, a patto che resista alle feroci partitelle tra ragazzi in cui perdere è un disonore. In una di queste viene distrutto il ginocchio di Crujiff, un ragazzo che gioca bene come l’olandese del calcio totale. Lo ritroveremo ogni tanto, Crujiff, a guardare dalla sua finestra gli ex-compagni giocare, con le fide Puma a sei tacchetti ingrassate di fresco accanto a lui sul davanzale.
È feroce, l’Italia di Reviati, e non fa sconti a nessuno. Il lieto fine qua è solo accennato; come finisce “Febbre a 90′” – invece – credo lo sappiano tutti.

“Febbre a 90′”, di Nick Hornby. Guanda Editore.
“Morti di sonno”, di Davide Reviati. Edizioni Coconino Press.

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°6: Heinlein e Miller

 

La guerra è l’elemento che accomuna i due libri di oggi: “300” di Frank Miller (con gli splendidi colori di Lynn Varley) e “Fanteria dello spazio” di Robert Anson Heinlein.
Due opere discusse, ritenute un inno (quasi) fascista al machismo del combattimento, due libri da cui sono stati tratti due film di opposta fortuna (“300”, sostanzialmente una prova d’autore che ripropone fedelmente il fumetto, spesso con inquadrature identiche alle tavole di Miller, è stato accolto positivamente dal pubblico ed ha incassato parecchie centinaia di milioni di dollari, “Starship troopers” è considerato un “B movie” e si allontana in molti aspetti dal romanzo), due letture comunque di sicuro impatto emotivo.

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“Fanteria dello spazio” usa una guerra con una popolazione di ragni alieni come canovaccio per parlare anche – anzi: soprattutto – di politica e di filosofia. Nel futuro immaginato da Heinlein solo gli ex soldati possono votare, e solo loro possono insegnare Storia e Filosofia. Il Professor Dubois (per quanto detto prima, ex-fante spaziale) così sentenzia rispetto ai valori universali dell’uomo:
“Le cose più belle della vita sono al di là del denaro. Il loro prezzo è agonia, sudore, devozione, e il prezzo richiesto per la piu’ preziosa di tutte le cose della vita e’ la vita stessa, costo ultimo per un valore perfetto.”

Un altro insegnante, il Maggiore Reid, spiega i motivi del successo del sistema politico in vigore:
“Dunque, dove sta la differenza? Ipotesi ne abbiamo ascoltate abbastanza, perciò ora vi darò io la definizione esatta. Con il nostro sistema, ogni elettore e ogni governante è un uomo che ha dimostrato, con anni di duro servizio volontario, di considerare il benessere della maggioranza più importante di quello personale. Questa è l’unica differenza pratica con il non elettore. Può mancare di saggezza, può scarseggiare in virtù civiche ma la sua prestazione media è assai migliore di quella di qualsiasi altra classe dirigente della storia.”

[Questa considerazione di Reid potrebbe spiegare perche’ la politica italiana degli ultimi venti anni ha questa bassissima qualita’…]

“300” racconta – romanzandola per tavole sviluppate in orizzontale in un inconsueto formato rettangolare “largo” – la battaglia delle Termopili, dove un piccolo esercito di Greci riuscì a ritardare di molti giorni l’avanzata della colossale macchina da guerra approntata da Serse. Il sacrificio di quelle poche migliaia di greci (e dei trecento spartani del titolo) compattò l’intera nazione e permise – nei mesi successivi – la vittoria.

La prosa di Miller è epica e cameratesca. Delio, il cantore della battaglia, vede così il glorioso primo giorno di combattimento:
“Con i cuori uniti in un canto muto… attacchiamo. Spalla a spalla, scudo contro scudo… con gli occhi fissi su quelli dei nostri odiati nemici, assaporando il loro crescente terrore… colpiamo. Uniti, fusi come una sola creatura… indivisibili, impenetrabili, inarrestabili… incalziamo.”

Nelle ultime pagine, alla fine di una strenua e sanguinosa resistenza, oramai vicino alla capitolazione, Leonida spedisce Delio a Sparta, perché la memoria dell’eroismo dei trecento si tramandi. Ecco come i due si accomiatano:
“Sire… Avete qualche messaggio per la Regina?”
“Niente che vada detto a voce”

In “300” molte cose non sono dette a voce: le immagini (come e’ giusto che sia in un fumetto) hanno il sopravvento sulle parole, ma proprio le parole – alla fine – risulteranno l’arma determinante per vincere la guerra; ugualmente, in “Fanteria dello spazio” – romanzo dedicato per più della metà alla formazione del fante spaziale prima e dell’ufficiale poi – le lezioni filosofico – politiche quasi prevalgono sull’azione (che pure è molto presente), a sottolineare anche lì l’importanza del pensiero e del ragionamento.

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°3: Tolkien e Smith

Due mattoni da più di milletrecento pagine, due saghe che hanno fatto la storia di letteratura e fumetto, due romanzi fantasy in cui il personaggio principale è il più comune tra i protagonisti, e uno dei suoi amici e protettori ha super poteri inimmaginabili, e i cattivi sono veramente cattivi.

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“Bone” di Jeff Smith e “Il Signore degli anelli” di J.R.R. Tolkien, insomma.

Della trilogia tolkeniana tutti sanno tutto, soprattutto grazie ai film di Jackson (sperando che in molti abbiano pure letto il libro…), le righe rimanenti le userò quindi per “Bone”.

Il fumetto di Smith è la storia di tre cugini che – scacciati da Boneville, la loro città – capitano nella Valle, l’equivalente della Terra di Mezzo del romanzo di Tolkien.
Nella Valle combatteranno il Male alleandosi con gli abitanti del posto. Semplice, lineare e classicamente perfetto.

Come in Tolkien i protagonisti non sono umani: nel Signore degli Anelli Frodo e i suoi compagni della Contea sono Hobbit, mezz’uomini. Qua sono buffi personaggi che somigliano a pupazzi, che però interagiscono con uomini, draghi e mostri vari, spesso risultando più umani dei loro corrispettivi.
Rispetto alla trilogia tolkeniana, “Bone” ha una punta di amara ironia che allevia il dramma incombente, e alcuni spunti del tutto comici. È un libro adatto a una vasta fascia di età, direi dagli otto anni in su. Con l’unica avvertenza di fare attenzione sul serio al peso del malloppone, poco gestibile dalle piccole mani dei bambini.
Una chicca per chi come ma ha quel libro come totem: Fone Bone, il protagonista del fumetto di Smith, ha una sacca con dentro i suoi tesori. Uno di questi, il più prezioso, è una copia di “Moby Dick” di Melville.

“Bone”, di Jeff Smith (Bao Publishing)
“Il Signore degli Anelli”, J.R.R. Tolkien (Bompiani)

 

Barney

 

 

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°2: Spiegelmann e Meyssan

Paralleli divergenti in questo caso, tra un fumetto serissimo nella sua opera di documentazione d’un dramma raccontato in presa diretta, e un romanzo-inchiesta a teorema, che vorrebbe dimostrare la falsità e l’inconsistenza della versione ufficiale dello stesso dramma.
L’episodio preso in esame è famosissimo: l’attacco all’America dell’11 settembre 2001, e ci viene raccontato attraverso il World Trade Center caduto a New York, disegnato qualche settimana dopo da Art Spiegelmann ne “L’ombra delle Torri“, e l’aereo caduto sul Pentagono pochi minuti dopo l’attacco a New York, che secondo il Therry Meyssan di “L’incredibile menzogna” non e’ mai esistito.

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I punti di vista opposti nascono da esperienze nemmeno lontanamente comparabili tra di loro: Spiegelmann che vive da sempre a New York, e che ci racconta l’ansia di sapere la figlia proprio nella zona dell’attacco, al suo terzo giorno di scuola, la corsa pazza e senza fiato alla ricerca di informazioni, l’orrore in successione dei crolli delle due Torri, l’odore nauseante delle settimane successive che ricorda quello che suo padre gli ha raccontato dei camini di Auschwitz… e Meyssan, che costruisce tutto il suo libro su assunti e prese di posizione del tutto arbitrarie, e lo fa “osservando” foto e filmati dalla Francia, senza nemmeno aver visto da vicino i luoghi di cui millanta di sapere tutto, che ci racconta di bugie e coincidenze incredibili, che discetta di ingegneria e tecnologie aeronautiche non avendo una base nemmen minima per farlo.

Io – ve lo dico subito – sto con Spiegelmann; ma i due libri leggeteli entrambi, perche’ solo il fatto che si possano esprimere idee cosi’ diverse su un episodio che tutti abbiamo vissuto e’ stupefacente e meraviglioso allo stesso tempo.

Art Spiegelmann “L’ombra delle Torri”, Einaudi 2004
Thierry Meyssan “L’incredibile menzogna”, Fandango Libri 2002

 

Barney

Filosofia da muro #118 e #119 (hat trick: Pendolante)

Due immagini al prezzo di una, entrambe su treni per pendolari dell’Italia centrale.

Ho messo assieme quella di Pendolante e una mia perché esprimono violenza in modi diversi. La foto di Katia è splatter tarantinesco-Dexteriano che fa sorridere, nessuno lo prende sul serio:

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La mano è allenata a scrivere con la bomboletta, con lettere a metà tra il gotico nazista e il l33t che denotano un tasso di nerdaggine notevole, magari la sega circolare è l’arma di riferimento dell’avatar del graffitaro in qualche FPS massivo.

L’altra scritta l’ho fotografata io, dentro un treno che potrebbe essere il gemello di quello di Katia, ma dall’altra parte dell’Appennino:

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Qua la rabbia, la frustrazione, l’odio per i negr i nigeriani si avverte dal primo momento, e se ce ne fosse bisogno lo stizzito personaggio sottolinea due volte tutta la frase.

Tutta meno “Faculo dal“, che non è un typo ma proprio lo specchio del livello culturale (scusate il termine) del graffitaro. C’è addirittura spazio tra “Fa” e “culo”, una “n” ci sarebbe stata se la frase fosse stata riletta oltre che sottolineata. Ma tant’è: questo è il messaggio che il coraggioso suprematista-nazionalista ha voluto lasciare a chi fosse salito sul treno dopo di lui, sforzandosi tra l’altro nel recupero di quelle abilità manuali faticosamente imparate nei lontani e terribili anni delle scuole elementari (usare una penna, scrivere lettere, cercare di mettere in fila soggetto, verbo e complemento oggetto…).

Qua non siamo di fronte a uno che gioca a Grand Theft Auto. Qua siamo davanti a uno che purtroppo ci crede, e che magari alla fine prende una pistola e gli spara, ai negr ai nigeriani che non sono andati a faculo dal nostro paese. Che poi, mi piacerebbe sapere cosa si intende per andare a faculo dal nostro paese

 

 

Barney

[Cartaresistente] Paralleli su carta n°1: Baru e Izzo

Ri-leggere un libro è un atto che richiede volontà: non capita per caso, soprattutto quando dopo il primo ne rileggi un secondo che avevi già in mente dall’inizio, come nel caso che riempie il resto del post.

L’autoroute du Soleil” di Baru e “Casino totale” di Izzo sono rispettivamente una graphic novel disegnata da un francese del nord est quasi come fosse un manga giapponese, e un romanzo scritto da un francese del sud che si può etichettare “poliziesco hard boiled” ma anche racconto politico, diario musicale e ricettario assolutamente accurato di piatti della tradizione marsigliese.

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Entrambi pubblicati nel 1995, raccontano una Francia che sta facendo i conti in quegli anni con il prepotente ritorno del nazionalismo del Front National di Le Pen, e lo fanno incontrandosi idealmente a Marsiglia, città teatro delle gesta del poliziotto Fabio Montale di Izzo e luogo di fuga per Karim e Alexandre di Baru, che partono dalla Lorena per un viaggio picaresco nel profondo della Francia rurale.

In entrambi i libri si avverte l’anarchia dei protagonisti, e se nel fumetto si gusta il tratto splendido di Baru per tutto ciò che non è umano (le Citroën paiono fotografate, invece che disegnate) e la scanzonata ed incosciente gioventù dei due fuggitivi, in Izzo l’amaro fatalismo di Montale ci pervade, e ci lascia soltanto quando il poliziotto cucina, o quando va – da solo – in barca.

Tornando alla premessa iniziale, forse la ragione inconscia che mi ha spinto alla rilettura è proprio lo strato politico che entrambe le opere posseggono, il rifiuto di lasciare la società nelle mani di un nuovo fascismo che appare meno duro di quello vecchio, ma infinitamente più subdolo e pericoloso.

 

Barney