“Grand Budapest Hotel”, W. Anderson (USA-Germania, 2014)

Il giudizio sintetico, prima di tutto: da vedere assolutamente.

Poi, lo spiego del perche’.

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“Grand Budapest Hotel” e’ un film WesAndersoniano sin dalle prime inquadrature.

La celeberrima ricerca della simmetria, i colori strabordanti, gli elementi-idolo sono presenti e risaltano anche nella locandina, per poi affollare il film in tutta la sua lunghezza. La pellicola ricalca gli stilemi del regista anche in altri aspetti: la presenza della voce narrante, ad esempio, o le ripetizioni di situazioni strane che guidano i protagonisti verso momenti apicali (esempio: la visita al convento sperduto sulle vette innevate, in cui Gustave e Zero vengono accolti da una serie di monaci che ogni volta iniziano chiedendo “E’ lei Monsieur Gustave?”, poi inducono i due a comportamenti bizzarri per trasportarli al monaco successivo che ricomincia con “E’ lei Monsieur Gustave?”). Il regista americano -oramai un cult per il mondo del cinema- non fatica a mettere assieme ancora una volta un cast stellare, tanto ampio che e’ sicuramente meglio linkare wikipedia piuttosto che spiattellarvelo qui. Risaltano per recitazione Ralph Fiennes -il M. Gustave che non e’ a posto senza un par di spruzzate di Air de Panache-, uno stronzissimo Adrien Brody -il cattivo Dmitri-, un cinico, freddo e cattivo Willem Dafoe (lo spietato Jopling), Tilda Swinton (una Madame D. ottantatreenne credibilissima)… ma tutto il cast e’ all’altezza di un film che a volte rasenta la prova di bravura fine a se stessa (rasenta, nel senso che non varca mai il limite).

I pochi momenti drammatici si alternano a scene che sembrano uscite dritte dritte dalle comiche mute di Buster Keaton (l’inseguimento sulla neve e’ notevole in questo senso, cosi’ come Dafoe in sella a una motociclettona d’epoca), e i vari pezzi del puzzle sono tenuti assieme dalla trama e dalla voce narrante.

Molto interessante anche la costruzione del film, circolare: si parte ai nostri giorni con uno scrittore che racconta l’epoca d’oro del Grand Budapest Hotel attraverso la narrazione della sua visita all’albergo negli anni ’60, visita in cui il proprietario dei grand Budapest narra al giovane scrittore la storia dell’albergo negli anni ’40. Ci sono quindi tre piani temporali, e Anderson ha girato questi tre “tempi” diversi con tre differenti modalita’ di ripresa, a determinare anche tecnicamente lo stacco tra le epoche.

Il film e’ godibilissimo come commedia, ma in sottofondo vi e’ pure un neanche troppo velato riferimento alle nefandezze del nazismo. La lettura, nei titoli di coda, che la storia e’ ispirata all’opera di Stefan Zweig non arriva quindi del tutto inaspettata.

Da vedere per capire cosa vuole dire fare davvero cinema, e fanculo a tutte le ninfomaniacate iperpompate del cazzo, alle commedie pisciocaccaculo, alle pellicole che si reggono sulla quantita’ di silicone nelle tette delle attricette pseudoprotagoniste, alla roba iperimpegnata da cineforum con dibBattito obbligatorio alla fine: qua ci si diverte non spegnendo il cervello, anzi.

 

Barney

12 pensieri su ““Grand Budapest Hotel”, W. Anderson (USA-Germania, 2014)

  1. Gintoki

    Bellissimo.
    Non avrei saputo descriverlo meglio.

    Una cosa che mi piaceva tantissimo era l’uso della telecamera: per passare a un’altro personaggio o un’altra azione, non c’era uno stacco o un cambio di inquadratura. Semplicemente, si spostava di lato. Fighissimo

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    1. Barney Panofsky Autore articolo

      Si, Anderson e’ un gran tecnico della ripresa. E’ -per me che ne capisco nulla di queste robe qua, io ammiro le cose belle e stop- paragonabile a Kubrick per certe “invenzioni” stilistiche.
      Grazie dei complimenti!

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  2. Barney Panofsky Autore articolo

    Io di Zweig ho letto solo la novella degli scacchi, ma la sua personalita’ mi intriga, come mi intrigano le personalita’ dei suicidi “pour cause” (anche se per me non v’e’ mai una ragione per togliersi la vita, ma tant’e’: sono una contraddizione vivente…): Romain Gary e sua moglie Jean Seberg sono altri due personaggioni che si sono ammazzati e che mi affascinano.
    [No, non mi sento assolutamente la voglia di suicidarmi, t’ assicuro. Soprattutto in questo periodo :-P]

    Il film secondo me e’ notevole, anche senza stare a fare tutte le seghe mentali che mi faccio io (ma questo post-visione…): Anderson e’ davvero un gran bel regista.

    Buona giornata.

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    1. blogdibarbara

      Ed è proprio intorno alla questione dell’esilio e del suicidio che ho fatto la tesi. Personaggio davvero affascinante da molti punti di vista (anche lui si è suicidato insieme alla moglie). Se leggi le Meisternovellen (non so che titolo abbiano in italiano) in cui è contenuta anche la novella degli scacchi, trovi molti indizi di suicidio, materiale o simbolico, come quello della novella in questione in cui “smette” per sempre. E in quelle novelle ci trovi esattamente la situazione in cui si è trovato lui: pacifista convinto al tempo in cui pacifista non era una parolaccia, ha lasciato l’Austria per l’Inghilterra all’epoca in cui viverci, per un ebreo, era estremamente scomodo ma non ancora veramente pericoloso, solo per sfuggire a quel clima di violenza. Poi l’Inghilterra è entrata in guerra e lui è andato negli Stati Uniti. Poi gli Stati Uniti sono entrati in guerra e lui si è rifugiato in Brasile. Poi la guerra è arrivata anche lì e lui, stanco di fuggire, si è arreso.
      E Romain Gary alias Émile Ajar, grande, grandissimo, immenso!

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