L’acqua calda

Ieri una delle notizie messe in ombra dall’ultima vomitata televisiva del guitto di Arcore e’ stata quella dell’ennesimo concorso pubblico di cui mesi prima gia’ si sapevano i vincitori.

Siamo nel 2013, ho 46 anni, e devo continuare a leggere questi racconti di anime belle che si stupiscono di come vanno le cose negli atenei italiani.

Oltretutto, queste anime belle si fanno prendere bellamente per il culo dall’ennesimo professore che ha vinto alla lotteria della vita una cattedra universitaria per meriti che non sono di certo solo accademici, se l’esimio-chiarissimo-santo subito si permette impunemente di sparare simili coppiole di vaccate. Lui che “monta il cavallo che conosce di piu’“, lui che premia lo studente che -vedi tu i casi della vita?- lo passava a prendere in macchina tutte le mattine, perche’ “abitavamo vicino“, ma che a un mese dall’esame ha smesso perche’ “ho preso le distanze… Ognuno con la sua auto“, lui che si ritiene una persona “abbastanza onesta” (si nota l’abbastanza, o ve lo devo sottolineare?), lui insomma non e’ altro che il mediocre simbolo d’una mediocrita’ diffusa, un comportamento che oramai non fa nemmeno piu’ schifo. E’ un guitto di Arcore in sedicesimo, un furbetto dell’auletta, un italiano come piace a molti italiani.

E tutti, tutti siamo complici del fatto che tale schifo d’uomo possa sopravvivere e prosperare.

Pure io.

Io, che una ventina di anni fa, appena laureato, mi iscrissi a due concorsi per una borsa di dottorato, e vinsi per meriti e competenza (v’ho gia’ detto che di secondo nome faccio “Boria”, no?) quello al Dipartimento in cui avevo fatto la tesi.

Poi, visto che avevo pagato l’iscrizione anche all’altro, andai all’esame pure di quello.

Era un dottorato in Oculistica, alla Clinica Universitaria di Pisa, e io ero un povero biologo che aveva fatto una tesi sperimentalissima in neurofisiologia del sistema visivo di vertebrati superiori (traduzione: avevo messo su un apparato sperimentale computerizzato, e lo avevo testato su alcuni piccioni. Tralascio altri particolari, non voglio ingenerare discussioni laterali che non c’entrano col tema principale). Non avevo la minima idea di questioni mediche, ma siccome avevo gia’ il mio posto assicurato andai allo scritto con il cuore leggero e l’entusiasmo sfacciato dei miei ventisei anni.

Lo scritto si fece in una sala ad emiciclo tutta in legno, tipica delle aule di medicina e delle universita’ dei primi del ‘900, ed eravamo in parecchi, direi a memoria sicuramente piu’ di quindici per due soli posti.

Io arrivai presto, e mi posizionai nell’aula accanto a un paio di ragazzi che conoscevo, raccontai un po’ di come me la passavo e del fatto che avevo gia’ in tasca la borsa per il dottorato di Neuroscienze, e mi misi ad aspettare con gli altri l’arrivo della commissione.

I professori arrivarono dalla porta che si apre direttamente accanto alla lavagna, in basso, vicino alla cattedra. E assieme ai professori (dell’Universita’ di Siena, rinomata per la sua Clinica Oculistica) entrarono due esaminandi, due ragazzi vestiti come i professori (giacca e cravatta da vecchio trentenne).

La commissione e i due ragazzi entrarono (lo ricordo ancora) parlando e ridendo. Poi il Presidente ci spiego’ come sarebbe avvenuta la prova, e chiese un volontario per estrarre il titolo della prova tra le tre in busta chiusa che erano state preparate. Siccome nessuno voleva prestare la sua mano al fato, mi alzai io (ero quello che aveva gia’ vinto, capirete come la mia baldanza e la mia strafottenza fossero alle stelle…) e procedetti alla selezione casuale.

Dalla busta che io stesso avevo estratto usci’ un tema che -vi giuro- era in pratica il titolo della mia tesi. Ora: siccome sull’argomento mi ci ero spaccato il culo per piu’ di due anni (si, le tesi sperimentali ai miei tempi erano veramente sperimentali, dall’inizio alla fine), siccome ho sempre avuto una certa facilita’ a scrivere, e siccome -e dieci!- ero assolutamente rilassato e tranquillo, mi piazzai al mio posto e tirai fuori una prova non dico da Nobel ma neanche solo dignitosa. Io mi sarei dato un otto e mezzo, via… Tra l’altro il fatto d’essere un biologo sperimentale mi permise di spaziare su temi e particolari che -ne sono certo- i medici manco potevano supporre che esistessero.

Attorno a me alcuni dei candidati si ritirarono subito, alla lettura del titolo; altri abbandonarono in seguito, ma io mi accorsi di poco: scrivevo e basta. E alla fine, quando consegnai il documento, eravamo rimasti in cinque: io, i due che erano entrati con la commissione e una ragazza e un ragazzo, credo entrambi medici.

La graduatoria sarebbe stata esposta di li’ a poche ore, e di seguito si sarebbero svolti gli orali. Io me ne andai a pranzo (ancora tranquillissimo, ovviamente), e all’ora stabilita mi presentai davanti al portone cui vennero affissi i risultati.

La graduatoria portava solo tre nomi di idonei alla prova orale. Il mio era il terzo, e ovviamente davanti a me c’erano i due giovinotti che erano entrati al mattino assieme alla Commissione d’esame. L’orale fu un disastro, per me: mi chiesero quasi nulla come agli altri (perche’ infierire? Oramai la classifica era definita, no?), ma il quasi nulla mio era una patologia della palpebra che mai avevo sentito nominare, e visto che oramai m’era chiaro l’andazzo e mai avrei fatto il dottorato li’, mi permisi di confessarlo candidamente.

Se avevo avuto dei dubbi su come funzionavano le cose nell’universita’ italiana, questo episodio me li levo’ in poche ore.

Da quel giorno e per i successivi quattro anni mi lamentai solamente di una cosa: di non riuscire a trovare un bookmaker che accettasse le mie scommesse sui nomi dei vincitori dei vari concorsi a ricercatore, professore e financo -come nell’ultimo caso di Roma- a studente del Corso di Dottorato. Avrei almeno tirato su dei bei soldi…

Invece sono rimasto povero, e soprattutto non ho fatto nulla perche’ questo sistema che premia molto raramente chi merita -e molto, troppo spesso chi lecca meglio i culi- terminasse.

Non credo che questo outing tardivo serva a qualcosa, se non a liberarmi parzialmente la coscienza, ne’ credo che il concorso unico nazionale possa incidere su questi meccanismi mafiosi e nepotistici (chiamiamo le cose con i loro nomi, almeno…) cosi’ incancreniti nei nostri atenei.

Io propongo da qualche anno l’abolizione completa dei concorsi e la scelta diretta di qualsiasi dipendente pubblico da parte del dirigente responsabile, che pero’ deve rispondere civilmente e penalmente delle sue scelte: a fine anno si verifica la produzione del nuovo assunto, e se lo standard e’ infimo si licenzia lui e chi lo ha assunto.

Si chiama “Selezione Naturale“, e sulla Terra funziona da qualche miliardo di anni.

Colonna sonora adeguatamente incazzata, con Mr. Simonon, Mr. Strummer, Mr. Headon [1] e Mr, Jones che prendono atto di come sia poco furbo metterso contro la legge:

 

[1] ma c’era Topper alla batteria in questo brano? Mica son sicuro…

 

Barney

14 pensieri su “L’acqua calda

  1. Man from Mars

    Senza entrare nel merito di questo specifico episodio, il problema più grande è che i mostri generano solo altri mostri: cosa ti aspetti da quelli che hanno avuto il posto in modo così bieco? Che domani scelgano “il più bravo” come assistente/pupillo/galoppino?
    Sbaglio o c’è dell’ironia nella scelta della canzone? 🙂

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  2. wwayne

    L’ anno scorso ho frequentato un corso di Storia Medievale. Il professore che lo teneva confrontava il linguaggio dei documenti politici medievali con quello odierno, e ci faceva notare che rispetto ad allora oggi si tende a sfumare tutto, ad evitare espressioni forti, ad usare molti eufemismi, a cercare di essere politicamente corretti anche quando si potrebbe tranquillamente dire pane al pane e vino al vino. Invece di dire brutto, diciamo quasi bello. Invece di dire vecchio, diciamo non più giovane. Invece di dire orrendo, diciamo non riuscito.
    Tendiamo sempre a morderci la lingua, a reprimerci nel nostro modo di parlare e di scrivere anche quando non ce ne sarebbe assolutamente bisogno. Proprio perché é così raro trovare una persona che parli senza peli sulla lingua, quando in tv qualcuno comincia a farlo subito diventa un personaggio: pensiamo a Sgarbi, alla Maionchi, ad Aldo Busi eccetera.
    Tutto questo mi é tornato in mente quando hai parlato di meccanismi “mafiosi e nepotistici”, e subito dopo hai aggiunto: “chiamiamo le cose con i loro nomi, almeno…” Hai ragione: al giorno d’ oggi le cose non vengono più chiamate con il loro nome, ma con il loro eufemismo. Ti eri accorto di tutto questo?

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    1. Barney Panofsky Autore articolo

      Si, verissimo. Secondo me rientra tutto nel l’appiattimento generale, nel l’uniformità che rende uguali le vie principali di Praga, Budapest, Parigi, Pechino… E le persone che ci passeggiano: tutti mediocremente medi, tutti carini, tutti in grado di consumare le stesse cose. Polli da batteria, siamo diventati…

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      1. wwayne

        Per fortuna tu, chiamando appunto le cose con il loro nome, ti ribelli a questo processo. Ovviamente io faccio lo stesso, perché c’ho sempre goduto come un riccio a fare la voce fuori dal coro. Da spirito libero quale sono, quando vedo che tutti fanno qualcosa io mi ribello e tendo a fare esattamente l’ opposto. E più una cosa é di nicchia, più facilmente attira la mia simpatia. A presto! : )

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  3. Gianni Comoretto

    Ho avuto l’onore, e onere, di essere in una commissione per un concorso unico nazionale.
    Non difendo quel modello, singifica dover scegliere 5 fortunati tra 80 dignitosissimi candidati, confrontando argomenti disparatissimi (astronomia sperimentale, vai dal costruiire un ricevitore radioultrasensibile a mandare in orbita un satellite che riveli la polarizzaizone dei raggi X), in pratica trovare il meglio del meglio confrontando meloni con mietitrebbia.
    Gli ammessi all’orale, una dozzina, erano tutti degni di vincere un posto di prof associato (il concorso era per ricercatore), e sicuramente abbiamo fatto qualche errore di valutazione, non riesci a decidere chi sia il migliore in assoluto in un colloquio di meno di mezz’ora. Ma ci abbiamo provato, al meglio delle nostre possibilità.
    Terminato l’esame, il presidete ci fa: “Ora fuori i nomi, chi erano i raccomandati?” Ciascuno ne aveva tre o quattro, “caldamente consigliati” da amici o perfetti sconosciuti di colpo divenuti molto cordiali. E ciascuno si è sforzato di dimenticarli. Inutile dire che parecchi degli amici non sono stati proprio contentissimi. I concorrenti, anche quelli che han perso, sì, si sono sentiti valutati correttamente, anche se in una situazione allucinante per cui gli spazi per il merito sono pochissimi. Ma sono stati tenuti aperti.

    Morale della storia: il concorso unico è un delirio, ha costretto noi quattro disgraziati (5 con il segretario) a settimane di lavoro massacrante, a studiare per capire argomenti disparatissimi al di fuori dalle nostre competenze (il che comunque non è mai un male). Il tutto è durato anni, quando un concorso “normale” ci mette mesi. Ma tenere lontani, fisicamente, i commissari dai posti dove i vincitori andranno a lavorare ha permesso, volendolo, di fare le cose “onestamente”. Di ignorare le spintarelle, le “esigenze di laboratorio”, i giochi interni (che in astronomia forse sono meno forti che altrove).

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    1. Barney Panofsky Autore articolo

      Scusa se ti rispondo solo ora ma ero fuori.
      Si, e’ vero: tendo a fare di ogni erba un fascio e mi dimentico delle molte eccezioni. Purtroppo la norma non e’ quella che racconti, come si evince dai commenti degli altri che chiedevano chi fossero i vostri raccomandati. Tu e la tua commissione siete una lodevolissima eccezione.
      Dove lavoro io abbiamo il viziaccio di chiedere soldi per progetti di ricerca, e poi addirittura spenderli per fare quel che s’era proposto ai vari Ministeri, Commissioni Europee e Agenzie varie; e una volta un revisore a mo’ di battuta ci chiese dove avevamo nascosto la Porsche comperata coi soldi del Ministero, facendoci intendere che spesso i soldi sono -come dire?- usati per altro. In fase di verifica, possiamo aver problemi perche’ ci manca il timbrino x sul documentello y, ma non e’ mai successo che non dimostrassimo (ferro ed elettronica alla mano) che il prodotto finale c’era.

      Sono pessimista sulla maggioranza rumorosa che fa statistica, insomma, ma credo che le brave persone non si siano estinte.

      Beh, almeno non ancora…

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  4. delmenoedelpiu

    Forte, chiaro e condivisibile – l’unica domanda che avrei a questo punto e’: “…a fine anno si verifica la produzione del nuovo assunto, e se lo standard e’ infimo si licenzia lui e chi lo ha assunto.” Ma chi la verifica la produttivita’? Impeccabili, incorruttibili burocrati, oppure gli zii dei professori che hanno fatto le assunzioni. Per la serie “chi fara’ la guardia ai guardiani?”

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    1. Barney Panofsky Autore articolo

      “Watchmen” e’ uno dei miei fumetti preferiti.
      Si, il problema esiste, e affidarsi a indicatori di performance non e’ una soluzione esente da pericoli.
      Ma mi pare che si possa rischiare in questo caso: peggio di come e’ adesso e’ difficile fare.

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